La varietà di piante in grado di causare sintomi neurologici nei ruminanti è ampia ed è bene avere in mente i possibili quadri sintomatologici per intervenire tempestivamente.

Nei ruminanti, le in­tossicazioni da vegetali caratterizzate da disturbi neuromusco­lari hanno eziologia variabile: possono insorgere dopo il pascolo o derivare dal consumo di foraggio. Le piante in causa sono erbacee o legnose e il pericolo può nascondersi nelle foglie, nelle radici o nei semi.

È quindi difficile stilare un elenco esaustivo, che comprenderebbe la maggior parte delle piante tossiche riscontrate in Medicina Veterinaria e sarebbe di scarsa utilità per il medico veterinario: verranno quindi trattate solo le piante responsabili dei sintomi più precoci e/o più marcati, che in gene­re rappresentano i segnali di allarme motivo della visita. Il meccanismo d’azione, tuttavia, non sempre agi­sce direttamente sul sistema nervoso ma può, ad esempio, essere la conse­guenza di una cardiotossicità (tasso) o di un’anossia (piante contenenti glicosidi cianogenetici). I segni ri­portati sono generalmente disturbi locomotori, tremori, convulsioni o, al contrario, paralisi e prostrazione.

Il quadro clinico di queste intossi­cazioni il più delle volte non è spe­cifico, in quanto i sintomi possono variare notevolmente in base alla dose ingerita e alla fase di evolu­zione. Di conseguenza, la diagnosi non può essere puramente clinica e raramente è possibile contare sull’aiuto degli esami di laboratorio, poiché le sostanze responsabili non possono essere oggetto di analisi di routine compatibili con la Medicina Veterinaria degli animali da reddito. Per questo, è particolarmente importante basar­si sui dati epidemiologici: da qui l’importanza di avere a disposizione le informazioni che consentono al medico veterinario di sospetta­re o escludere la presenza della tal pianta nei pascoli.

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Caratteristiche ecologiche e tossiche delle piante citate.

Altro aspetto fonda­mentale da tener presente è che raramente è possibile un trattamento specifico. In genere, infatti, la terapia è sintomatica e volta all’eli­minazione della sostanza tossica; si basa sulla somministrazione di xilazina in caso di tremori o convulsioni e sull’esecuzione di una gastro­tomia per lo svuotamento del rumine.

Il finocchio d’acqua

Il finocchio d’acqua (Oenanthe crocata), noto anche come prezzemolino, è una pianta perenne della famiglia delle Apiaceae (un tempo Ombrellifere). Come tutte le piante di questa famiglia, ha infiorescenza a forma di ombrello, fusto cavo e foglie frastagliate, ed è talvolta difficile distinguerla da altre specie molto simili. Questo è il motivo per cui, a volte, gli allevatori la chiamano cicuta, definizione che può portare il medico veterinario sulla strada sbagliata, poiché viene utilizzata per indicare diverse Apiaceae simili tra loro.

A questa famiglia appartengono anche diversi ortaggi (carota, sedano, pastinaca, ecc.) e a volte si segnalano intossicazioni nell’uomo dovute proprio a confusione.

Il finocchio d’acqua si caratterizza per le sue dimensioni elevate (1 m in media, ma talvolta fino a 1,50 m, o anche 2 m), per i suoi fiori bianchi ben visibili in maggio-giugno e soprattutto per la sua radice composta da numerosi tuberi, che al taglio mostrano un essudato giallo-arancio che diventa bruno all’aria; crocatus, infatti, in latino significa color zafferano.

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Il finocchio d’acqua, Oenanthe crocata.
© M. Bonmort.

Tutta la pianta è tossica, per la presenza di pollini (o derivati poliacetilenici), il principale dei quali è l’enantotossina, presente in quantità ridotta nei fusti e nelle foglie e concentrata soprattutto nella radice. Si tratta di un alcol polinsaturo, la cui concentrazione è massima in inverno e all’inizio della primavera. Questa sostanza viene rapidamente distrutta con l’esposizione all’aria, ma mantiene la sua attività nei tuberi intatti e la pianta rimane tossica diversi giorni dopo la raccolta.

Patogenesi

L’enantotossina esercita un’azione tossica centrale legandosi ai recettori dell’acido gamma-amino­butirrico (GABA) di tipo A e causando il blocco dell’attività modulatoria di questo neurotrasmet­titore. Ciò si traduce in ipereccitabilità neuronale e stimolazione dei recettori colinergici.

Circostanze dell’intossicazione

L’odore e il sapore del finocchio d’acqua non sono ripugnanti per gli animali e ad alcuni potrebbero addirittura piacere. Ma la pianta viene ingerita ra­ramente quando è eretta; è soprattutto la curiosità che li spinge a consumarla, dopo la falciatura o lo sradicamento. Il rischio d’intossicazione è legato soprattutto alla pulizia dei fossi nei quali il finoc­chio d’acqua diventa rapidamente invasivo, i tuberi esposti risultano infatti molto attraenti per il bestiame.

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Radici di finocchio d’acqua. © M. Bonmort.

Nei piccoli ruminanti, l’intossicazione è rara, anche se si possono osservare forme subacute dopo ingestione del fogliame. La quantità di radice che può causare avvelenamenti acuti nei bovini è stimata in meno di 1 g per chilo di peso vivo.

Quadro clinico

L’ingestione di una quantità sufficiente di tuberi può portare rapidamente a una forma iperacuta, che si manifesta con morte improvvi­sa, senza segni premonitori; tuttavia, la forma acuta è la più comune. Dopo un breve periodo di latenza, l’animale cade a terra e presenta convulsioni (continue o crisi). Il trisma è co­mune ed è segnalata anche amaurosi. Queste manifestazioni possono essere accompagnate da segni gastroenterici, come diarrea, coliche, ipersalivazione e meteorismo, ma non in mo­do sistematico. Sono possibili anche disturbi respiratori, con dispnea e cianosi.

L’esito è generalmente fatale; in caso con­trario, può persistere una paralisi posteriore. L’autopsia rivela la presenza di frammenti di tuberi nel rumine, che emanano un odore inu­suale, simile a quello del sedano.

Le lesioni sono poco caratteristiche, con tal­volta petecchie o emorragie sulla mucosa ga­stroenterica. Quando l’animale ingerisce una minima quantità di tuberi o soltanto le par­ti aeree della pianta, l’evoluzione può essere subacuta, associata a segni gastroenterici più marcati (diarrea) o a segni neurologici discre­ti. In questi casi, il recupero è possibile entro alcuni giorni.

Cicuta acquatica o virosa

La cicuta acquatica (Cicuta virosa) cresce in luoghi molto umidi, come paludi o abbeveratoi. Assomiglia al finocchio d’acqua e le sue radici contengono cicutossina, un isomero geometri­co dell’enantotossina. La pianta è leggermente meno tossica del finocchio d’acqua, ma la sua ingestione causa lo stesso quadro clinico.

Cicuta maggiore

La cicuta maggiore (Conium maculatum) è una pianta della famiglia delle Apiaceae simile al finocchio d’acqua, da cui si distingue per le foglie molto frastagliate e per la presenza di macchie violacee alla base del fusto.

È una pianta che privilegia terreni argillosi o calcarei, abbastanza comune (tranne che nelle zone costiere): si trova lungo i bordi delle strade, nelle zone ruderali e in luoghi freschi.

Tutta la pianta è tossica per la presenza di alca­loidi contenenti un anello piperidinico, il prin­cipale dei quali è la conicina. La sua natura volatile è responsabile dell’odore sgradevole di urina di topo che si sprigiona quando le foglie vengono schiacciate e spiega perché la tossicità diminuisce con l’essiccazione, anche se il fieno recente rimane pericoloso.

Patogenesi

Gli alcaloidi della cicuta esercitano un’azione ini­zialmente stimolante, poi rapidamente paralizzante sui recettori nicotinici. Le dosi letali sono dell’ordi­ne di 4-5 kg di pianta fresca per un bovino adulto. I piccoli ruminanti sembrano più resistenti, ma le dosi tossiche non sono note.

Circostanze dell’intossicazione

L’intossicazione è rara, poiché la pianta non viene consumata spontaneamente; gli incidenti si verificano principalmente quando viene di­stribuita con l’erba tagliata o nel fieno fresco.

Quadro clinico

I sintomi insorgono abbastanza rapidamente, entro 2-3 ore dall’ingestione. Gli animali ap­paiono inizialmente agitati, poi si sdraiano e mostrano una profonda apatia. Si notano iper­salivazione, lacrimazione, rigurgito, atonia ru­minale e dispnea, con insufficienza respiratoria che generalmente porta alla morte. L’autopsia non fornisce informazioni particolarmente utili, poiché la pianta è difficile da riconoscere nel rumine, ma l’urina, e talvolta gli animali stessi, emanano un caratteristico odore di topo.

Cicuta minore

La cicuta minore (Aethusa cynapium) è una piccola pianta (60 cm massimo) della famiglia delle Apiaceae, diffusa nei giardini e nei campi. Contiene conicina come la cicuta maggiore, ma in concentrazione minore. L’avvelenamento è raro, perché la pianta non è appetibile. Il quadro clinico è simile a quello causato dalla cicuta maggiore, ma con disturbi gastroenterici più marcati rispetto ai segni neurologici.

Tasso comune o baccato

I tassi sono alberi notevoli, dal punto di vista sia tossicologico sia botanico. Unico presente in Europa, il tasso baccato (Taxus baccata) è una conifera sempreverde che può assumere la forma di albero (la cui altezza può raggiungere i 15-20 m) oppure di un arbusto di medie di­mensioni, talvolta modellato con la potatura (arte topiaria), o di una pianta tappezzante che non supera i 50 cm di altezza. Si distingue per la sua notevole longevità (un esemplare ha più di 2.000 anni), ma anche per la sua crescita molto lenta.

È un albero dioico e gli esemplari maschi sono caratterizzati da amenti giallastri, mentre i fiori femmina sono piccoli boccioli verdastri o rossastri. Il tasso è una conifera che non produce coni, ma arilli, ovvero un frutto formato da un involucro carnoso attor­no al seme che gli conferisce l’aspetto di una bacca di colore rosso vivo.

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Un rametto di tasso comune, Taxus baccata, con i tipici arilli.
© M. Bonmort.

La fioritura avviene ad aprile e i frutti maturano a settembre.

Le foglie sono aghi morbidi color verde scuro, che gli conferiscono un aspetto simile all’a­bete; è però facile distinguere le due specie osservando la superficie inferiore delle foglie: verde chiaro uniforme nel tasso, con due linee bianche nell’abete.

L’albero cresce spontaneamente nelle regioni montuose calcaree, ma è presente ovunque, frequentemente in parchi, giardini, cimiteri e, a causa della dispersione da parte degli uc­celli selvatici, anche nelle siepi. È un albe­ro altamente tossico, associato alla morte fin dall’antichità.

La tossicità del tasso è dovuta principalmente alla tassina, una miscela di alcaloidi presenti in tutta la pianta, tranne nella parte carnosa dell’arillo. Il contenuto di tassina varia durante l’anno ed è massimo in inverno.

Patogenesi

L’azione tossica della tassina non colpisce il sistema nervoso ma il muscolo cardiaco, poiché blocca i canali del calcio e del potassio. Il tutto si traduce in un aumento della concentrazione intracitoplasmatica di calcio, con conseguente blocco della contrazione atrioventricolare e riduzione della contrattilità miocardica. Il cuore si ferma in diastole.

Circostanze dell’intossicazione

È possibile il consumo spontaneo della pianta eretta, poiché non avendo resina può essere appetibile, ma le intossicazioni generalmente seguono alla potatura dei rami, per la curio­sità degli animali. Si segnalano anche intos­sicazioni causate dal fieno quando nelle balle sono presenti rami, poiché la tassina resiste all’essiccazione. La dose tossica delle foglie è pari a 0,5 g/kg di peso vivo, nei bovini come nei piccoli ruminanti, ma si sono verificate intossicazioni anche a dosi inferiori.

Quadro clinico

Il periodo di latenza è breve, poiché la tassina viene assorbita rapidamente. Di conseguenza, il decorso è spesso acuto, con morte improvvisa. In caso contrario, si osserva una breve fase di agitazione, seguita da tremori e vertigini, con caduta a terra dell’animale, che resta in decubito, con meteorismo e bradipnea. L’auscultazione rivela disturbi del ritmo cardiaco, il più delle volte bradicardia associata a ipotensione. La morte sopraggiunge nelle ore che seguono per arresto cardiaco. All’autopsia non emergono segni specifici, ma si osservano congestione, edema polmonare, emorragie spleniche e intestinali.

La diagnosi si basa principalmente sul rilevamento di foglie di tasso nel rumine, talvolta anche nel cavo orale. In genere, data la rapida evoluzione e la natura legnosa della pianta, la diagnosi è semplice. In caso contrario è possibile identificare e quantificare la tossina in un campione di contenuto ruminale.

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Contenuto ruminale di un bovino con elementi vegetali riconducibili a tasso (frecce). © M. Bonmort.

Datura o stramonio comune

Esistono diverse specie di datura (famiglia Solanacee) e la principale è la datura comune (Datura stramonium).

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Datura stramonium in fioritura.
© M. Bonmort.

È una pianta erbacea annuale, facilmente riconoscibile dai fiori bianchi in calici tubolari e dal frutto molto caratteristico: una capsula spinosa, delle dimensioni di una grossa noce, contenente numerosi semi nerastri, piuttosto grandi (2-3 mm). La pianta, le cui dimensioni variano da 30 cm a 2 m, emana un odore sgradevole. È una pianta infestante diffusa nelle aree incolte, ai bordi delle strade e nei campi coltivati; cresce in tutti i tipi di terreno, ma apprezza particolarmente i terreni sabbiosi con pH alcalino e le temperature elevate.

La sua progressiva diffusione è imputabile sia al riscaldamento globale sia all’abbandono dell’atrazina, un diserbante particolarmente efficace. Le parti aeree della datura vengono distrutte dal gelo, ma non i semi; è quindi presente soprattutto nelle colture seminate tra aprile e settembre (mais, girasole, soia, sorgo, ecc.), dove può raggiungere densità elevate, ma anche nelle colture di copertura con stoppie di cereali e nei prati giovani.

L’intera pianta è tossica poiché contiene numerosi alcaloidi tropanici, i più tossici dei quali sono l’atropina (principalmente sotto forma del suo isomero levogiro iosciamina) e la scopo- lamina. La loro concentrazione è abbastanza variabile in base alla stagione e all’età della pianta, ma le parti più ricche sono i semi e i fiori, poi le foglie, le radici e infine le pareti del frutto. Le piante giovani accumulano principalmente scopolamina e le piante più vecchie iosciamina. L’atropina e la scopolamina vengono assorbite bene e metabolizzate solo parzialmente. L’eliminazione avviene quindi in forma attiva nelle urine e una piccola frazione passa nel latte.

Patogenesi

L’atropina e la scopolamina sono antagonisti dei recettori muscarinici periferici e centrali; esercitano un’azione parasimpaticolitica e causano una sindrome anticolinergica, con un tossidromo che associa segni neuropsichici e segni neurovegetativi dovuti all’inibizione della peristalsi e delle secrezioni.

Circostanze dell’intossicazione

A causa del suo odore ripugnante, la pianta eretta viene raramente consumata; ma l’odore diminuisce o addirittura scompare durante l’essiccazione e il fieno è quindi pericoloso. Inoltre, le intossicazioni al pascolo non sono impossibili se la datura matura lascia cadere i frutti, e i semi, che non hanno sapore sgradevole, si distribuiscono sul terreno. Ma il rischio di esposizione è legato soprattutto all’eventuale presenza della pianta nell’insilato di mais, che viene prodotto durante il periodo in cui essa fruttifica, da cui la possibile presenza di numerosi semi nel foraggio.

L’allevatore si trova quindi di fronte al rischio di un’intossicazione a cadenza regolare, ma anche a quello di un’ingestione ripetuta o addirittura cronica, molto più difficile da valutare. In caso di ingestione una tantum, la quantità minima che può causare intossicazione è stata stimata in 15 kg di foglie e steli o 300 g di semi per un bovino di 500 kg, che corrisponde alla quantità potenzialmente presente nei frutti di una singola pianta di datura. Le dosi tossiche in caso di ingestione ripetuta sono molto più difficili da stimare, poiché l’eliminazione degli alcaloidi è lenta, da cui un possibile aumento della concentrazione nell’organismo, che varia a seconda della velocità di ingestione.

A volte vengono fissati livelli massimi da non superare nell’insilato, ma le piante di datura presenti nell’appezzamento non vengono diluite in modo uniforme in tutto l’insilato. Se il bestiame ingerisce una frazione di insilato contenente una quantità sufficiente di semi, potrebbe verificarsi un’intossicazione clinica.

Di conseguenza, ci si deve preoccupare non appena la datura viene individuata nel pascolo. Questo ragionamento, tuttavia, rimane abbastanza teorico e, sebbene la datura venga regolarmente identificata in molti appezzamenti, le segnalazioni di intossicazione del bestiame a seguito dell’ingestione di insilato contaminato sono poche.

I piccoli ruminanti sono meno sensibili dei bovini alla tossicità della pianta e le pecore sono più sensibili delle capre.

Quadro clinico

In caso di ingestione di grandi quantità, l’intossicazione ha un decorso acuto. Il tempo di latenza è breve e i sintomi possono manifestarsi nel giro di 2-4 ore dall’ingestione. Si osserva un’intensa midriasi, che può simulare cecità, e cambiamenti del comportamento. Negli esseri umani sono spesso descritte allucinazioni ed è probabile che si verifichino anche negli animali.

Si osserva inizialmente agitazione, talvolta associata ad aggressività, e successivamente disturbi neuromuscolari (tremori, atassia, convulsioni). Contemporaneamente, si rileva secchezza delle mucose, notevole nel cavo orale, associata ad atonia del rumine con conseguente meteorismo. I disturbi del ritmo cardiaco (tachicardia) non sono i più gravi.

I segni di eccitazione sono seguiti da una fase di depressione che può progredire fino al coma, quindi alla morte, nel giro di poche ore o diversi giorni. L’autopsia evidenzia la presenza della pianta nel rumine, generalmente sotto forma di semi. Non sono presenti lesioni caratteristiche; solo congestione generalizzata, talvolta associata ad aree emorragiche. Ma l’esito fatale non è la regola e spesso viene segnalata la guarigione.

È possibile anche una forma subacuta, in seguito all’ingestione di piccole quantità o all’esposizione prolungata, in particolare quando la datura è presente nell’insilato; questa tuttavia è descritta meno bene e può provocare segni aspecifici come depressione, inappetenza, meteorismo. La diagnosi è complessa, ma potrebbe essere facilitata dalla misurazione degli alcaloidi nelle urine, come avviene in Medicina Umana. L’esito è generalmente favorevole, poiché la comparsa fin dalle prime fasi di un calo dell’appetito limita l’esposizione.

Trattamento

Il carbone attivo è consigliato in quanto assorbe gli alcaloidi, sebbene possa aggravare la costipazione. Nei piccoli ruminanti da compagnia, purché non destinati al consumo umano, la xilazina può essere sostituita dal diazepam per correggere i disturbi neuromuscolari, evitando però i neurolettici (acepromazina), che possiedono essi stessi azione anticolinergica. Non esiste una condotta specifica raccomandata per quanto riguarda i problemi cardiaci.

La disseminazione della datura nei terreni coltivati ha portato all’adozione di norme per limitare la contaminazione delle derrate alimentari. La Direttiva 2002/32/CE fissa il contenuto massimo accettabile di semi nei mangimi per animali a 1 g/ kg (sulla base di un tasso di umidità del 12%).

Piante contenenti glicosidi cianogenetici

Famiglie botaniche

  • I glicosidi cianogenetici sono presenti in diverse famiglie botaniche.
    Le principali piante contenenti glicosidi cianogenetici comprendono la famiglia delle Rosaceae.
    • Il lauroceraso (Prunus laurocerasus), arbusto di origine asiatica introdotto nel XVI secolo oggi molto diffuso in giardini e parchi, si è riprodotto naturalmente anche nelle aree rurali e forestali. È caratterizzato da foglie sempreverdi lucide e può essere confuso con l’alloro portoghese (Prunus lusitanica), dotato della medesima tossicità. Non vi è alcuna parentela, invece, con altre piante, come l’alloro, il viburno tino (laurotino o lentaggine) e l’oleandro, che appartengono ad altre famiglie e non contengono glicosidi cianogenetici.
    • Gli alberi da frutto, molti dei quali contengono glicosidi nei semi, sono tossici per i ruminanti che consumano varietà selvatiche nelle siepi (ciliegio, prugnolo, ecc.), così come per i piccoli ruminanti domestici esposti alle varietà ornamentali (mela cotogna giapponese, cotoneaster, ecc.). La polpa dei frutti di queste Rosaceae non è tossica, ma i semi e il fogliame sono ricchi di amigdalina e altri glicosidi più specifici di ogni pianta.
  • I glicosidi cianogenetici sono presenti anche in piante selvatiche, ornamentali o foraggere, come:
    La gliceria acquatica (Glyceria acquatica), un’alta pianta perenne simile a una canna (famiglia Poaceae, un tempo Graminaceae) vive, come suggerisce il nome, in luoghi molto umidi (paludi, bordi di stagni, prati acquitrinosi). Tutta la pianta è tossica per la presenza del glicoside cianogenetico durrina
    • Il sorgo da foraggio (diverse varietà derivanti da Sorghum vulgare), appartenente alla famiglia Poaceae. Il sorgo contiene durrina nella pianta giovane (meno di 1 m), più nelle foglie che nei fusti, ma la concentrazione diminuisce bruscamente durante la crescita
    • Il trifoglio bianco (Trifolium repens), leguminosa perenne, molto diffuso nei prati, sugli argini, ai bordi delle strade, ecc. È una pianta strisciante, caratterizzata da lunghi piccioli che portano una foglia con tre foglioline e fiori bianchi o rosati. Si presenta spontaneamente nella maggior parte dei prati naturali, oppure è coltivata insieme al loglio o altre Poaceae
    • I bambù (Bambusa spp.), anch’essi della famiglia Poaceae, comprendono un gran numero di specie di dimensioni variabili (da 1,5 a 15 m). Per la loro rapida crescita e il folto sviluppo, sono apprezzati nei parchi e nei giardini come siepi, frangivento o coperture del terreno, ma possono diventare rapidamente invasivi.
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Il lauroceraso (Prunus laurocerasus).
© M. Bonmort.
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Bambù (famiglia Poaceae).
© M. Bonmort.

Patogenesi

I glicosidi cianogenetici sono carboidrati complessi che, dopo idrolisi, rilasciano acido cianidrico (HCN), una parte zuccherina e un aglicone o benzaldeide, che ha un caratteristico odore di mandorla amara.

Questa idrolisi può avvenire durante il rilascio degli enzimi della pianta nello stomaco, ma soprattutto grazie agli enzimi dei microrganismi presenti nel tratto gastroenterico dei ruminanti. Il cianuro liberato viene riassorbito molto rapidamente e si lega al ferro della citocromo ossidasi, presente in grandi quantità nel tessuto nervoso, nella retina e nei muscoli. Le citocromo ossidasi sono enzimi mitocondriali che consentono la fosforilazione ossidativa e la respirazione cellulare: il cianuro, inibendo questi enzimi, impedisce l’utilizzo dell’ossigeno da parte delle cellule e provoca anossia cellulare. Il tessuto nervoso è il più sensibile alla mancanza di ossigeno e l’intossicazione è quindi caratterizzata dalla rapida insorgenza di disturbi neurologici.

La sintesi dell’adenosina trifosfato (ATP) si arresta, con una deviazione verso la glicolisi aerobica e l’acidosi lattica. Il cianuro è dotato anche di citotossicità: provoca l’apertura dei canali del calcio e aumenta il flusso di calcio intracellulare, sconvolgendo il metabolismo della cellula, è anche associato alla formazione di radicali liberi, all’origine di perossidazione dei lipidi di membrana. Queste lesioni neuronali contribuiscono alla comparsa di fenomeni convulsivi.

Le dosi tossiche sono molto difficili da determinare, poiché il contenuto di glicosidi della pianta è variabile. Queste dosi dipendono in parte anche dall’animale e più precisamente dal contenuto di zolfo della sua razione, che gioca un ruolo importante nella disintossicazione. Nello specifico, la concentrazione dei glicosidi cianogenetici varia in base a:

  • età: la concentrazione è massima nei germogli di sorgo e lauroceraso
  • varietà: per i foraggi, si possono selezionare varietà a bassa capacità di sintesi di glicosidi
    tipo di terreno: i fertilizzanti azotati o la carenza di fosforo aumentano il contenuto di glicosidi
  • clima: anche la siccità o, al contrario, il clima umido e molto caldo aumentano la concentrazione di queste sostanze tossiche
  • trattamenti fitosanitari: il diserbo con fitormoni può aumentare le concentrazioni


Circostanze dell’intossicazione

La pianta principalmente coinvolta in episodi di intossicazione è il lauroceraso. Molto spesso, queste intossicazioni sono il risultato del taglio delle siepi, i cui scarti vengono lasciati sul posto o distribuiti agli animali; nel caso dei piccoli ruminanti domestici si tratta anche dell’ingestione della pianta eretta. I proprietari a volte riferiscono che i loro animali domestici hanno l’abitudine di rosicchiare le foglie dalla siepe senza conseguenze, ma anche in questo caso è dalla dose che dipende la quantità ingerita di sostanza tossica; l’ingestione di una piccola quantità di pianta contenente glicosidi cianogenetici può infatti essere tollerata senza effetti visibili.

L’intossicazione da gliceria può verificarsi in caso di pascolo particolarmente prolungato, quando rimane una delle poche piante verdi disponibili. L’intossicazione da sorgo è secondaria all’ingestione di foraggio molto giovane, in particolare quando gli animali scappano e hanno accesso a un campo di piantine. Il trifoglio bianco contiene basse concentrazioni di glicosidi e l’intossicazione è possibile solo in caso di ingestione di notevoli quantità, circostanza che avviene di rado poiché, in genere, il trifoglio bianco è sempre associato ad altre piante. L’avvelenamento da bambù interessa soprattutto i piccoli ruminanti domestici, molto spesso per residui di potatura lasciati sul posto.

Quadro clinico

L’insorgenza dei sintomi richiede un tempo di latenza corrispondente all’idrolisi dei glicosidi (che libera il cianuro) e varia da una a diverse ore a seconda della quantità ingerita.

In caso di evoluzione iperacuta, gli animali vengono trovati morti prima della comparsa dei sintomi.

La forma acuta è caratterizzata da vertigini, tremori e cadute a terra, con comparsa di convulsioni alternate a fasi comatose. Contemporaneamente, si instaurano problemi respiratori (polipnea con sensazione di oppressione toracica), con ortopnea e segni di soffocamento. A questi segni molto evidenti si aggiungono ipersalivazione, midriasi e lacrimazione. Le mucose sono congestionate, inizialmente rosa e non cianotiche. Successivamente si instaura la cianosi e le mucose assumono una tinta grigiastra. Si rilevano tachicardia e poi bradicardia; l’animale entra in coma e muore per arresto respiratorio. L’analisi biochimica del sangue evidenzia un’iperlattacidemia tanto più marcata quanto più elevata è la concentrazione di cianuro nel sangue, elemento che conferisce a questo esame un valore prognostico. Si riscontra anche iperglicemia.

Si può osservare anche una forma subacuta, con abbattimento, rigurgito e ipersalivazione, che tuttavia viene superata nei giorni successivi.

All’autopsia, se l’evoluzione è stata rapida, si nota un colore rosso vivo del sangue, per la congestione generalizzata. La carcassa e il contenuto dello stomaco emanano un odore di mandorle amare. La diagnosi di laboratorio è teoricamente possibile a partire da campioni di contenuto gastrico, sangue o muscolo, ma i prelievi sono difficili da effettuare sul campo: lo ione cianuro, infatti, ha un’emivita molto breve e viene rapidamente trasformato in tiocianato; per questo, è richiesto un congelamento molto rapido.

Trattamento

Sul campo, il trattamento è generalmente troppo tardivo; se c’è ancora tempo, si può comunque tentare un trattamento specifico. Gli antidoti utilizzati in Medicina Umana (idrossicobalamina ed EDTA cobalto) non sono disponibili in Medicina Veterinaria, ma si può prendere in considerazione la somministrazione di tiosolfato di sodio, composto che permette di neutralizzare lo ione cianuro mediante la formazione di tiocianato (non tossico), eliminato nelle urine.

Non esiste una specialità farmaceutica, ma è possibile procurarsi il principio attivo puro in farmacia e, se necessario, preparare una soluzione acquosa al 20%, da somministrare lentamente per via endovenosa, alla dose di 500 mg/kg o di 2,5 ml/kg di peso vivo, cui può essere associata una somministrazione orale alla medesima dose. Il tiosolfato di sodio è un composto naturalmente presente nell’organismo; di conseguenza, la sua somministrazione è sicura e il suo costo è accessibile.

Il trattamento per l’eliminazione della sostanza tossica si basa sulla ruminotomia d’urgenza. La somministrazione di carbone attivo è inefficace. Il trattamento sintomatico si basa principalmente sulla correzione dell’acidosi.

Sommaco provenzale

Il sommaco provenzale (Coriaria myrtifolia), della famiglia delle Coriariaceae, è un arbusto sempreverde, con fiori verdastri e piccoli frutti neri che formano numerosi germogli alla base.

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Sommaco provenzale (Coriaria myrtifolia). © M. Bonmort.

È comune lungo i bordi delle strade e sui pendii asciutti e calcarei. Talvolta piantata a scopo ornamentale, tutta la pianta è tossica per la presenza di un lattone sesquiterpenico, la coriamirtina. Il sommaco provenzale è anche molto ricco di tannini, da cui, in passato, il suo utilizzo nella concia delle pelli.

Patogenesi

La coriamirtina ha una struttura simile alla picrotossina estratta dalla coccola di levante (Anamirta cocculus), che ha un’azione antagonista del GABA. La picrotossina era precedentemente consigliata anche in Medicina, antidoto per l’avvelenamento da morfina, grazie alla sua azione stimolante sulla respi­razione. La coriamirtina ha anche un’azione bulbare eccitante, poi convulsivante. Si tratta di una sostanza altamente tossica (LD50 nei topi per os prossima a 1 mg/kg) e sono stati segnalate intossicazioni nell’uomo causate da alimenti provenienti da animali che avevano consumato sommaco provenzale (latte di capra, miele, lumache). I tannini hanno anche un ef­fetto astringente sulla mucosa gastroenterica.

Circostanze dell’intossicazione

A causa del suo biotopo (zone aride), l’intossicazione si verifica soprattutto nei piccoli ruminanti,
in particolare nelle capre, ma è possibile nei bovini, poiché il sommaco provenzale può essere presente nelle siepi e condivide lo stesso habitat dei rovi.

Quadro clinico

In piccole quantità, il sommaco provenzale può causare una forma subacuta con nausea e rigurgito, secchezza delle fauci, vertigini e di­sturbi dell’andatura o tremori, da cui l’animale si riprende nel giro di qualche giorno.  

Se la quantità ingerita è maggiore, il quadro clinico diventa rapidamente più eclatante e si avvicina a quello dell’intossicazione da stric­nina, con iperestesia e violente crisi convulsive intervallate da fasi di prostrazione. L’animale può rimanere cosciente tra un attacco e l’altro o presentare uno stato comatoso. Si osservano midriasi o miosi, nonché trisma. La morte so­praggiunge per asfissia in seguito alla paralisi dei muscoli respiratori. L’autopsia evidenzia una congestione diffusa.

Gli equiseti

Gli equiseti (Equisetum spp.) sono piante erbacee perenni della famiglia Equisetaceae, facilmente riconoscibili per i fusti eretti segmentati. Non hanno foglie, ma segmenti che terminano in una sorta di collare nero e il fusto verde è la parte che effettua la fotosintesi. I fusti sono rigidi per loro alta concentrazione di silice, motivo per cui ven­gono utilizzati in erboristeria (azione remine­izzante).

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Gli equiseti sono piante erbacee perenni della famiglia Equisetaceae, facilmente riconoscibili per i fusti eretti segmentati. © M. Bonmort.

Si riproducono tramite spore, ma soprattutto tramite i rizomi che crescono orizzontalmente e si sviluppano rapidamente; questa caratteri­stica può rendere la pianta invasiva sui terreni adatti (silicei o calcarei).

L’equiseto campestre (Equisetum arvense) si trova prevalentemente nei prati umidi e nelle aree antropizzate (col­tivazioni, terreni incolti, sentieri, ecc.), mentre l’equiseto campestre (E. palustre) si trova nelle paludi o nelle zone inondate.

Patogenesi

Gli equiseti contengono molte sostanze tossi­che, tra cui una tiaminasi che, a differenza di quella delle felci, potrebbe rimanere attiva nei ruminanti, e un insieme di alcaloidi neurotos­sici, la cui concentrazione è significativamente più elevata nelle piante giovani.

Circostanze dell’intossicazione

Gli equiseti sono piante poco apprezzate dai ruminanti, ma l’ingestione è possibile quando invadono il pascolo o nei periodi di siccità, quando sono le uniche piante verdi ancora disponibili. Possono essere assunte anche con il fieno.

Quadro clinico

L’intossicazione evolve in forma subacuta e si manifesta con debolezza, disturbi dell’an­datura, rigidità, tremori e diarrea. Il quadro clinico è simile a quello associato a necrosi della corteccia cerebrale. Sono possibili anche forme subacute in cui gli animali conservano l’appetito.

Trattamento

La terapia si basa sulla somministrazione di tiamina (vitamina B1) per 1-2 settimane (5-10 mg/kg/die) per via orale o parenterale.

Il papavero

Il papavero (Papaver rhoeas) è una pianta erba­cea, appartenente alla famiglia Papaveraceae, caratterizzata da un fusto ricoperto di peli, foglie frastagliate e fiori solitari di colore rosso vivo durante l’estate. Nasce spontaneamente in terreni appena smossi, in particolare nei campi coltivati, sugli argini, nei terreni incolti, ai bordi delle strade, ecc. Apprezza particolar­mente i terreni umidi e piuttosto calcarei.

È un classico esempio di pianta messicola, nociva per competizione nei campi di cereali invernali e colza. La tossicità delle piante del genere Papaver è imputabile a una miscela di alcaloidi (più di 170). Il papavero contiene rhoedina nel lattice degli steli e delle foglie, ma soprattutto nel frutto, una piccola capsula contenente molti semi i quali, tuttavia, non sono pericolosi.

Patogenesi

La rhoedina e gli altri alcaloidi del papavero hanno una struttura diversa da quella della morfina e quindi non hanno la stessa azione agonista sui recettori cerebrali degli oppiacei, ma provocano effetti analgesici e psicodislet­tici. L’azione specifica degli alcaloidi del pa­pavero è poco studiata, ma la pianta è citata nella farmacopea europea per le sue proprietà sedative e antitussigene, tradizionalmente uti­lizzata nel trattamento dei disturbi del sonno e della tosse lieve.

Circostanze dell’intossicazione

La presenza di alcaloidi simili all’oppio nel Papaver rhoeas rende preoccupante la sua presenza ma in realtà l’intossicazione negli animali è molto rara perché la tossicità del papavero è generalmente bassa, decisamen­te inferiore a quella del papavero da oppio (Papaver somniferum). Inoltre la pianta fresca viene consumata raramente perché poco appe­tibile. Tuttavia, perde il suo sapore sgradevole una volta essiccato, mentre la tossicità persiste e possono verificarsi intossicazioni in segui­to all’ingestione di fieno o paglia fortemente contaminati.

Quadro clinico

I casi descritti in passato riportano una breve fase iniziale di agitazione, calpestio e muggiti; successivamente, l’animale si lascia cadere, en­tra in uno stato di sonnolenza che, nei casi gra­vi, evolve verso il coma. Contemporaneamente si osservano bradipnea e atonia gastroente­rica, con costipazione.

Sono possibili forme subacute, con apatia e atonia gastroenterica intervallate da periodi di eccitazione. La miosi, caratteristica dell’intossicazione da oppioidi, è spesso segnalata in Medicina Umana.

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