Durante la prima giornata del congresso SITOV (Società Italiana Traumatologia e Ortopedia Veterinaria) i relatori intervenuti hanno offerto una trattazione panoramica dei metodi e dei materiali disponibili per l’impiego della tecnologia 3D in ortopedia veterinaria.
Cosa si può fare con la stampa 3D in ortopedia
Il dott. Andrea Pratesi (DVM, PhD, Cert. SAS, Dipl. ECVS, EBVS, Clinica Veterinaria San Marco, Padova) ha affrontato il ruolo della stampa dei modelli 3D nella pratica ortopedica veterinaria.
La stampa non industriale di parti e componenti utili allo svolgimento delle chirurgie ortopediche viene realizzata partendo dall’acquisizione di un’immagine ottenuta con tomografia computerizzata (TC), convertita poi tramite software dedicati in immagine 3D digitale la cui elaborazione e modellamento risultano poi in prototipi digitali da poter così stampare in 3D; in tal modo è possibile ottenere modelli anatomici e strumenti chirurgici dedicati al paziente (come le guide di taglio), utili sia a scopo didattico e formativo sia per la programmazione delle chirurgie, oltre a tutori personalizzati e protesi custom made temporanee o anche permanenti.

Fonte: arstech.it.

Fonte: arstech.it.
Il chirurgo può quindi disporre di una miglior consapevolezza di ciò che gli si presenterà sul tavolo operatorio e di come affrontarlo, apportando come vantaggio anche una riduzione dei tempi anestesiologici.
Una questione di ruoli
Le figure che interagiscono in questo processo sono identificate nel medico veterinario e nell’ingegnere biomedico. Da diverse review di Medicina Umana si evince che il ruolo del chirurgo si deve man mano interfacciare, durante il processo decisionale e di progettazione della chirurgia, con altre figure quali quella del radiologo e del bioingegnere soprattutto, nella fase di acquisizione ed elaborazione delle immagini.
Questo tipo di interazione in Medicina Veterinaria risulta alquanto difficoltoso e il chirurgo si assume spesso la responsabilità delle fasi di acquisizione delle immagini e talvolta della loro elaborazione, tappe che probabilmente costituiscono un anello debole del processo e nelle quali la figura del bioingegnere torna invece utile e può esprimere la sua potenzialità.
Tale difficoltà nella ripartizione dei ruoli porta a due rischi principali:
- la “ingegnerizzazione del veterinario”, che per eccesso di zelo si dedica alla progettazione di parti e componenti di cui andrebbero valutate caratteristiche come la forma, la dimensione, la struttura, il materiale e le simulazioni di carico (tutte competenze non proprie del medico);
- la “veterinarizzazione dell’ingegnere” derivata da una mancata comunicazione con il professionista medico veterinario.
È stato così sottolineato che la chiave per una buona riuscita in questa dinamica d’interazioni è proprio la comunicazione, perché è auspicabile che il medico veterinario si preoccupi di mettere al corrente il bioingegnere di criticità come l’approccio chirurgico, complessità anatomiche, dove e come posizionare gli impianti di stabilizzazione; mentre il bioingegnere dovrà preoccuparsi di investigare tali aspetti nell’ottica di una progettazione ottimale. Pertanto, quella tra medico veterinario e bioingegnere non va concepita come una sfida, bensì una stretta e solida collaborazione.
Da dove partire
Entrando nello specifico, il prof. Tommaso Banzato (PhD, prof. associato, Università degli Studi di Padova) ha evidenziato quanto sia importante già all’inizio del processo un’ottimale acquisizione delle immagini TC: disporre subito di immagini TC di alta qualità infatti le rende funzionali e utili alla realizzazione del modello 3D digitale e infine stampato.
A tal proposito, assume importanza l’approccio anestesiologico: per acquisire immagini tomografiche adeguate il paziente dev’essere assolutamente immobile durante lo svolgimento dell’esame; sono quindi necessarie l’intubazione ed eventualmente anche la ventilazione.
Importante è poi il posizionamento corretto dell’animale, soprattutto per quanto riguarda gli arti posteriori; allo scopo può essere utile l’utilizzo di nastri che stabilizzino la posizione.
Infine è necessario considerare i seguenti parametri radiografici (vedere tabella):
mAs (milliampère/secondo): influisce sulla definizione dell’immagine, in quanto inversamente proporzionale al rumore (disturbo) della stessa. Il valore ideale per le TC ortopediche è considerato tra i 180 e i 250 mAs (le più moderne macchine TC sono in grado di adattare tale parametro in automatico a seconda della regione anatomica presa in esame);
kV (kilovolt): un maggior valore di kV corrisponde a una maggior capacità di penetrazione dei raggi X, ma non sempre i macchinari prevedono la possibilità d’impostare tale valore;
spessore della fetta: equivale allo spessore della sezione analizzata ed è il parametro che più condiziona la qualità dell’immagine, per cui è necessario trovare un equilibrio tra lo spessore della fetta e il grado di riscaldamento del tubo radiogeno; si stima infatti che, ai fini ortopedici, lo spessore ottimale sia da considerarsi uguale o inferiore a 1 mm. Un tipo di artefatto legato a tale parametro è l’artefatto da volume parziale, risultato di una media tra le diverse densità di due spessori di fetta;
pitch: esprime la relazione tra il movimento del tavolo e lo spessore della fetta e al suo diminuire corrisponde una maggior qualità dell’immagine ottenuta. Nel tendere a un valore minimo del pitch va anche considerato l’aumento associato dello stress del tubo radiogeno con relativo riscaldamento;
kernel di costruzione: si tratta di un algoritmo che si traduce in un filtro da poter applicare all’immagine prodotta anche in un secondo momento per poterlo adattare in modo ottimale; tale opzione varia a seconda del macchinario e dello spessore della fetta e produce un impatto molto importante sulla qualità del processo di produzione dell’immagine;
fov (field of view): parametro che si riferisce al volume rappresentato in immagine, ovvero il corrispondente tridimensionale dei pixel (voxel); ne consegue che un fov minore rappresenta una superficie minore, dunque più dettagliata.

Tra le accortezze da avere durante lo svolgimento dell’esame tomografico, oltre ovviamente a quella di evitare materiali e oggetti metallici, vi è quella di puntare al posizionamento più fisso possibile del paziente sul tavolo onde evitare artefatti prodotti dalle vibrazioni del tavolo durante l’esame; tali artefatti tra l’altro, se lievi, non vengono rilevati nell’immagine tomografica ma solo nell’immagine in 3D.
La parola all’ingegnere
Spiegando il ruolo degli aspetti ingegneristici in questo processo, l’ing. Matteo Bonacina (Ing. Biomedicale, Ars & Technology Srl*), ha mostrato quali siano i principali materiali in uso oggi per la produzione di modelli e impianti 3D destinati alla chirurgia ortopedica.
I meccanismi di produzione sono di due tipi: sottrattivo e additivo; nel primo caso si ricorre all’utilizzo di frese che sottraggono appunto materia a un blocco originale (ad esempio, di titanio) per raggiungere man mano la struttura e la forma desiderata. Questo processo produce molto materiale di scarto ed è di più difficile realizzazione. Per quanto riguarda la stampa con produzione additiva, invece, si ricorre all’utilizzo di stampanti che sovrappongono gradualmente strati di materiale sino a raggiungere la forma voluta, con minor spreco di materiale.

Fonte: goldsupplier.com.
I materiali
I tipi di materiali utilizzati per la stampa 3D in ambito chirurgico hanno la caratteristica di essere biomateriali, ovvero impiantabili e biocompatibili, che non arrecano danno ai tessuti circostanti e sono in sintonia con l’organismo.
Ad oggi uno dei materiali principalmente utilizzati è il titanio 23 (una lega di titanio e altri elementi) considerato a tutti gli effetti medicale e con un’elevata tenacia. I componenti in titanio vengono stampati prevalentemente tramite il selective laser melting, un processo “per additiva” che prevede la fusione di polvere di titanio tramite un raggio laser con uno spot di 55 micron che va a sovrapporre man mano più strati sino a raggiungere la forma voluta. Il componente ottenuto viene poi ripulito dai residui di polvere e subisce un trattamento termico paragonabile alla tempra, che va a riorganizzare la struttura della lega conferendole maggior resistenza.
Un altro materiale è il PEEK (polietere etere chetone), polimero termoelastico organico, anche detto “re dei polimeri”, spesso utilizzato in Medicina Umana per le sue prestazioni molto elastiche. I componenti in PEEK sono ottenuti tramite produzione “per sottrattiva” o tramite stampa a filo (un filamento di materiale viene fuso ed estruso su una piastra a caldo sovrapponendo man mano gli strati per ottenere la forma voluta).
La scelta di uno o dell’altro materiale viene operata secondo criteri quali la dimensione del componente, il tipo di carico che dovrà sopportare, l’area anatomica su cui andrà applicato e la funzione che dovrà svolgere.
Come guida generale è consigliabile l’uso di titanio per la produzione di mesh (reticoli), endoprotesi, placche di fissaggio, ovvero strutture che devono sopportare un determinato carico.
L’utilizzo del PEEK invece è da preferire per strutture che non devono sostenere un grande carico come, ad esempio, quelle della regione maxillo-facciale, dove la funzione che devono svolgere è soprattutto il recupero di volume anatomico perso. Inoltre questo materiale ha il vantaggio di poter essere modellato direttamente in sala operatoria (a differenza del titanio) e non è termoconduttore, per cui non si scalda facilmente come potrebbe fare invece una protesi in titanio alla sola esposizione alla luce solare. Di contro, il PEEK non si presta all’osteintegrazione ed è attualmente molto costoso.
I prodotti
Il relatore ha successivamente chiarito il ruolo di un’azienda che si occupa di bioingegneria e della stampa di componenti 3D nel settore ortopedico. Ciò a cui si punta è la produzione di modelli personalizzati sul paziente e sulle esigenze del chirurgo che ne usufruirà; a tale scopo la collaborazione si deve instaurare sin dal principio della produzione, con la corretta individuazione delle parti anatomiche su cui si andrà a intervenire e delle strutture di maggior interesse.
Tra gli strumenti utili alla chirurgia ortopedica, possono essere prodotte dime di taglio e relative flange di taglio in titanio (autoclavabile e resistente) o resina; contemporaneamente, è possibile studiare e prevedere i punti di fissaggio di una placca.
Altro strumento utile è il mesh, per la cui realizzazione il chirurgo può predisporre la posizione dei punti di ancoraggio, grazie alla collaborazione tra le figure professionali in gioco: per mezzo di un apposito software viene prodotta l’immagine 3D e successivamente la stampa di una rete in titanio utile allo scopo prefissato.
Un altro prodotto realizzabile è rappresentato dalle trame in 3D, ancora in titanio, che grazie alla loro architettura conferiscono un minor peso alle protesi e una struttura favorevole a una maggior osteointegrazione, obiettivo molto importante per la riuscita ottimale di una chirurgia che prevede l’interazione di tessuto osseo e materiali non organici come quelli protesici.
Come fare in pratica?
Entrando nel vivo dell’argomento, il dott. Fabio Frazzica (DVM, CertAVP (GSAS), PgDip VPS, MRCVS, Vet Hospital H24, Firenze) ha illustrato come creare nella pratica le guide di taglio tramite software dedicati, prendendo in considerazione alcuni degli aspetti fondamentali quali:
- la morfologia ossea locale: la guida deve poter aderire perfettamente all’osso, per cui è necessario prestare attenzione a sporgenze ossee, depressioni, creste e solchi, considerando che superfici sottili o irregolari possono non essere ottimali per l’ancoraggio dei componenti;
- i punti di repere: devono essere facilmente identificabili sul paziente partendo dall’immagine 3D;
- lo spazio per gli strumenti e l’accesso chirurgico: devono garantire ergonomia e visibilità;
- le strutture anatomiche da evitare (vasi, nervi, strutture legamentose e tendinee ecc.), prestando particolare attenzione alle cartilagini che sull’immagine TC non vengono normalmente visualizzate;
- la stabilità della guida sull’osso, che dev’essere garantita;
- la compatibilità con i componenti finali, che dev’essere garantita.
Ciò che caratterizza i modelli ottenuti tramite stampa 3D è: un minor tempo intercorso tra progettazione e realizzazione; una maggior precisione; la produzione di strati più o meno spessi e una diminuzione di peso dei componenti. In Medicina Umana sono documentate evidenze scientifiche che attestano una maggior precisione nelle osteotomie, una diminuzione delle radiazioni a cui vengono sottoposti i pazienti, una minor durata degli interventi e infine costi inferiori; in Medicina Veterinaria poi è indiscutibile una maggior precisione dei tagli rispetto a quelli eseguiti a mano libera.
Risulta quindi evidente come la stampa di componenti 3D dedicati alla chirurgia ortopedica sia uno strumento utile e all’avanguardia sotto vari aspetti: è infatti in grado di migliorare l’efficienza e la qualità delle chirurgie, curando non solo gli aspetti intraoperatori ma anche e soprattutto quelli preoperatori, prevedendo un’accurata progettazione di tutto il processo produttivo.
La buona riuscita dell’intervento chirurgico è quindi il risultato di una sinergia di risorse che prevede il coinvolgimento di più figure, nella fattispecie quelle del medico veterinario chirurgo, del radiologo e del bioingegnere. La somma di tutti questi fattori porta a un risultato di cui beneficiano i medici ma anche e soprattutto i pazienti.