Il provvedimento di legge sull’equo compenso interessa anche il medico veterinario e può divenire uno strumento utile in alcune controversie contrattuali.

Come si definisce il giusto compenso del veterinario?

All’interno dei 13 articoli componenti il provvedimento sull’equo compenso, l’articolo 1 stabilisce che la corresponsione di un compenso nei confronti di un professionista debba essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche delle prestazioni professionali, nonché conforme ai compensi ufficialmente previsti.

L’equo compenso trova applicazione ai rapporti professionali aventi come oggetto la prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 C.c.), regolata da convenzioni e relativa allo svolgimento anche in forma associata o societaria delle attività professionali rese in favore di banche, assicurazioni, imprese con più di 50 lavoratori, imprese con ricavi annui superiori a 10 milioni di euro, pubblica amministrazione e società a partecipazione pubblica.

Per tutto quanto già esistente, saranno da considerare come clausole e pattuizioni nulle, ad esempio, tutte quelle che non prevedono un compenso equo e proporzionato all’opera prestata, tenendo conto anche dei costi sostenuti dal prestatore d’opera, compensi inferiori a quelli stabiliti dai parametri di liquidazione dei compensi previsti con Decreto ministeriale, quelle che vietano al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che impongono anticipazione di spese o attribuiscono al committente vantaggi sproporzionati, rispetto alla quantità e qualità del lavoro svolto o del servizio reso.

La lista completa delle casistiche è più lunga e dettagliata.

Si suggerisce a tutti i colleghi di leggerla con attenzione, se non altro per verificare se per caso avessero degli accordi già in atto con clienti, che contemplino i casi di specie espressamente vietati, in vista di una prossima loro rettifica e correzione.

Rideterminazione dell’equo compenso del veterinario

Sono anche previste azioni giudiziali a tutela del professionista.

Queste potranno essere promosse davanti al Tribunale del luogo di sua residenza o domicilio, impugnando la convenzione, il contratto, l’esito della gara, l’affidamento, la predisposizione di un elenco di fiduciari o qualsiasi altro accordo che preveda un compenso inferiore ai valori determinati.

Il giudice, rilevata l’iniquità del compenso, provvederà a rideterminarlo, condannando il committente al pagamento della differenza tra quanto versato e l’equo compenso.

Ai fini della rideterminazione di un equo compenso secondo i parametri dei decreti ministeriali, il Tribunale può richiedere al professionista di acquisire dall’Ordine o Collegio cui è iscritto il parere di congruità del compenso o degli onorari, che costituisce elemento di prova delle caratteristiche, urgenza, pregio dell’attività, importanza, natura, difficoltà e valore dell’affare, condizioni soggettive del cliente, risultati conseguiti, numero e complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate.

L’onere probatorio del professionista

È interessante rilevare come la nuova legge semplifichi l’onere probatorio del professionista, che intende tutelare il diritto a ricevere un compenso equo.

Si introduce così una presunzione semplice in base alla quale gli accordi preparatori o definitivi, purché vincolanti per il professionista, si presumono unilateralmente predisposti dalle imprese stesse, salva prova contraria.

Le imprese possono tuttavia adottare modelli standard di convenzione, concordati con il Consiglio nazionale degli Ordini o Collegi.

In questo caso i compensi pattuiti nei modelli standard si presumono equi fino a prova contraria.

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La concorrenza sleale

Obiettivo della legge sull’equo compenso non è solo quello di fornire uno strumento di tutela al professionista contro i grandi committenti, ma anche quello di impedire pratiche di concorrenza sleale tra colleghi, che, ribassando oltremodo i compensi, sviliscono il valore della prestazione professionale.

Agli Ordini e ai Collegi sarà affidato quindi il compito di introdurre norme deontologiche per sanzionare l’iscritto che viola le regole sull’equo compenso.

La nuova legge consente anche la class action a difesa dei diritti individuali omogenei dei professionisti, secondo le forme disciplinate dal titolo VIII bis del libro quarto del Codice di procedura civile.

Ferma restando la legittimazione del singolo professionista, l’azione di classe può essere proposta dal Consiglio nazionale del relativo ordine professionale o dalle associazioni maggiormente rappresentative.

L’applicabilità della nuova legge

Va da sé che l’approvazione di questo nuovo provvedimento, vista la sua ufficialità, abbia destato interesse e approvazione nelle varie categorie professionali, compresa quella dei medici veterinari.

Sono infatti riportati da più parti casi purtroppo numerosi di comportamenti ingiusti e vessatori da parte dei committenti delle nostre prestazioni.

Se quindi questo plauso diffuso era più o meno atteso e prevedibile nel merito, non bisogna dimenticare che questo tipo di provvedimenti era stato anche oggetto di incontri preelettorali condotti da rappresentanti della categoria con varie forze politiche.

A questo problema tutti, in vario modo, avevano dato riscontro, promettendo che azioni precise sarebbero state portate avanti in sede parlamentare. E così è stato.

Tuttavia, gli anni e la storia patria pregressa di medio e lungo periodo insegnano che un conto è legiferare, un conto diverso è applicare sul campo quanto legiferato.

Un conto ancora differente è poi valutare i risultati tangibili realmente ottenuti da quanto applicato.

È ovvio che la grande approvazione manifestata orizzontalmente da tutti i professionisti interessati, nel confronto della statuizione di un concetto ben preciso e cioè quello secondo cui i professionisti hanno diritto a ricevere un compenso equo e proporzionato al lavoro da svolgere, è sacrosanta.

Una certa cautela forse dovrebbe essere messa in atto invece sulle possibilità di effettiva applicazione in campo della nuova legge, così come è scritta oggi.

E soprattutto questa ipotetica applicabilità potrebbe non essere uniforme in tutti i possibili ambiti e contesti.

Infatti, pare ragionevole ritenere che in contesto di Amministrazione pubblica, l’applicazione possa risultare più semplice, in teoria.

Tale settore infatti deve anche rispettare altre norme e leggi riguardanti gare e appalti, fra cui potrebbe essere abbastanza agevolmente inserita anche quella sull’equo compenso.

Del tutto diverso è invece il caso del settore privato, dove vige una diffusa deregulation, basata su leggi di mercato che tengono in considerazione anche la tipologia, la qualità e il livello di difficoltà del lavoro da compensare, ma dove la somma totale a piè di lista in molti casi è ancora il discriminante principale per scegliere.

In tutti i settori, inoltre, tolti i casi in cui determinati incarichi possono essere svolti solo da una categoria specifica, in tutti gli altri categorie diverse si trovano a competere, con regole anche tariffarie proprie e non armonizzate.

Ma l’incognita che più lascia perplessi sull’applicabilità di questa legge e chi o come definirà il livello di complessità del lavoro da compensare, dato di base oltremodo rilevante, poiché in assenza di un metodo armonizzato e condiviso almeno all’interno della nostra categoria, è come potrà essere definito quando un qualunque compenso potrà essere definito “equo”?

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