Uno sguardo alle cistiti, pielonefriti e prostatiti nel cane e nel gatto: dalla diagnosi al trattamento medico.

Le infezioni urogenitali sono comuni tanto negli esseri umani, quanto nei cani e nei gatti. La gestione di queste affezioni presenta somiglianze, come l’uso razionale degli antibiotici, e alcune differenze, come la minore prevalenza di infezioni urinarie nei gatti rispetto ad altre cause di cistite (cistite da stress, idiopatica, cristalli o calcoli, ecc.).

In tutti i casi, per determinare la causa e il trattamento corretto, è necessario fare attenzione a raccogliere l’urina nel modo più sterile possibile e analizzarla rapidamente: nei cani e nei gatti come mezzo di raccolta è preferibile la cistocentesi, a differenza degli esseri umani per i quali l’urina viene raccolta mediante minzione spontanea dopo disinfezione locale.

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La cistocentesi è la modalità di prelievo ottimale per lo studio delle infezioni urinarie nel cane e nel gatto.
© Caroline Tual-Vaurs

Partendo dalla patologia più comune, la cistite, ne esistono diversi tipi: sporadica, ricorrente, associata a pielonefrite o a prostatite, o iatrogena, quale conseguenza di una cateterizzazione o di un intervento chirurgico.

Cistite batterica sporadica: la più comune tra le infezioni urogenitali

La cistite batterica è la causa più comune di infezioni urogenitali nei cani, mentre è più rara nei gatti, e interessa principalmente le femmine sterilizzate e i maschi castrati. Si parla di cistite batterica sporadica quando si sono verificati meno di 3 episodi negli ultimi 12 mesi. In ogni caso potrebbe essere interessante cercare fattori di rischio e comorbilità per limitare le complicanze.

Nel cane, idealmente, in attesa dei risultati dell’esame citobatteriologico delle urine (ECBU), il trattamento consiste nel solo analgesico-antiinfiammatorio. Se il disagio è significativo si può effettuare un’antibioticoterapia empirica, cioè amoxicillina come prima intenzione, o anche trimetoprim in seconda intenzione, per 3-5 giorni al massimo.

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Esempi di colture positive di frequente riscontro (Enterococcus faecalis, Escherichia coli, Proteus mirabilis).

Se si osserva un miglioramento clinico, ma i risultati dell’antibiogramma mostrano resistenza in vitro, l’antibiotico deve essere cambiato. Non è necessario ripetere una coltura quando si interrompe il trattamento, a meno che i segni clinici non persistano. Potrebbe essere utile ricercare la presenza di fattori perpetuanti, in particolare nelle cagne, come ad esempio una vulva incappucciata.

Questa forma è quella che più si avvicina a un’infezione urinaria semplice, riscontrata soprattutto nelle donne sotto i 50 anni, in cui la metà di queste cistiti guarisce spontaneamente, l’altra metà richiede l’uso di un antibiotico empirico monodose di prima linea, come la fosfomicina.

Gestione della cistite batterica ricorrente

La cistite batterica ricorrente è definita dalla comparsa di più di 3 episodi negli ultimi 12 mesi. Se il patogeno isolato differisce da un episodio all’altro, bisogna ricercare un problema anatomico o immunitario.

Il trattamento è uguale a quello della forma precedente, ma l’antibiotico di prima linea dovrebbe essere rivalutato non appena si ottengono i risultati dell’ECBU.

Il trattamento ha la stessa durata di quello previsto per la forma sporadica, ma in caso di persistenza con recidive, può essere prolungato (da 7 a 14 giorni al massimo). La combinazione amoxicillina-acido clavulanico viene spesso utilizzata per la sua buona diffusione nelle urine; tuttavia, se l’ECBU evidenzia la presenza di Escherichia coli, questa è sconsigliata, perché in corso di cistite ricorrente da E. coli c’è il rischio di un’infiltrazione intracellulare di batteri nella parete vescicale; in questo caso è opportuno ricorrere a un antibiotico con buona diffusione intracellulare.

I fattori di rischio anatomici o endocrini, vanno ricercati attraverso esami aggiuntivi (ecografia, radiografia, biopsia, analisi del sangue, ecc.). Il monitoraggio dell’efficacia del trattamento deve basarsi sulla clinica e non su un esame microbiologico. Anche in questi casi, un ECBU di controllo in assenza di recidiva clinica è inutile.

Anche nell’uomo, a parte i casi di prostatite, la terapia antibiotica non supererà i 7 giorni.

Il microbiota urinario

È ormai noto che la vescica del cane non è sterile e che la flora è diversa da quella delle
mucose rettali e genitali, anche se non differisce in base al sesso dell’animale. Nei cani,
si trovano in maggioranza Pseudomonas spp. Nei gatti sono stati condotti pochi studi, ma in
corso di insufficienza renale cronica, la disbiosi è più spesso provocata da E. coli o Shigella spp.

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I gatti con insufficienza renale cronica presentano più spesso disbiosi nel microbioma urinario dovuta a Escherichia coli o Shigella spp.

La cistite idiopatica non è correlata al microbioma del gatto. Lo studio del metaboloma (insieme di tutti i metaboliti e gli intermedi metabolici) e del suo legame con il microbioma
è una delle piste della ricerca, così come lo è il legame con il microbioma intestinale.

Batteriuria subclinica

A volte si può evidenziare la presenza di batteri anche in urine correttamente raccolte in asepsi, in assenza di segni clinici. L’esame del sedimento consente di confermare la batteriuria se si osservano neutrofili degenerati o con batteri fagocitati. Questo esame deve essere effettuato immediatamente dopo la raccolta delle urine affinché i cambiamenti osservati nei leucociti siano significativi.

In assenza di segni clinici il trattamento non è necessario, anche in caso di batteri multiresistenti. Se compaiono segni clinici, l’antibiotico viene scelto in base ai risultati del primo ECBU e adattato in base a quello di controllo.

Ci sono eccezioni: verranno trattati animali a rischio di diffusione dell’infezione o in presenza di batteri a rischio per cistite alcalina incrostante (Corynebacterium urealyticum, batteri ureasi +, Staphylococcus spp.).

I controlli clinici sono sufficienti per decidere se continuare o meno il trattamento.

Infezione post-cateterizzazione uretrale

Durante il cateterismo urinario, ad esempio nei gatti con ostruzione uretrale, esiste il rischio di infezione. Per limitarlo, bisogna effettuare il posizionamento del catetere urinario in asepsi, preferendo un sistema a circuito chiuso, e lasciandolo in sede per il più breve tempo possibile.

Finché è in posizione, gli antibiotici vengono evitati. Le colture non dovrebbero mai essere eseguite sul catetere, poiché quest’ultimo è sempre contaminato retrogradamente e tali colture non sono rappresentative del contenuto della vescica.

In caso di segni clinici il catetere va rimosso e si esegue un ECBU a partire da un campione raccolto per cistocentesi.

Se necessario, si posiziona un nuovo catetere. In caso di cistite, questa viene gestita come una forma sporadica.

Infezione post-chirurgia vescicale

Un’infezione urinaria può svilupparsi anche come conseguenza di un intervento chirurgico alla vescica. Prima della procedura chirurgica, va eseguito un ECBU a partire da una cistocentesi e, in tutti i casi, si inizia una terapia antibiotica 1 ora prima dell’intervento chirurgico con cefalosporine di prima o seconda generazione. Se l’ECBU dà esito negativo, va continuata per 24 ore, se invece è positivo, per 3-5 giorni.La profilassi antibiotica non è necessaria in caso di cistoscopia senza batteriuria e senza calcoli.

Nell’uomo, un ECBU prima dell’intervento chirurgico consente di trattare il paziente con terapia antibiotica al fine di sterilizzare la vescica e limitare il rischio di batteriemia.

La pielonefrite

La pielonefrite è un’affezione del parenchima renale provocata da una contaminazione batterica ascendente o da una batteriemia; nei cani è spesso causata da enterobatteri.

Negli animali da compagnia la diagnosi è a volte difficile, e nella diagnosi differenziale va inclusa la leptospirosi, poiché comporta un rischio di danno renale molto maggiore, che richiede diagnosi e trattamento precoci.

I parametri ematici renali, quali creatinina, urea, dimetilarginina simmetrica (SDMA), possono essere alterati, così come la proteina C-reattiva (CRP). Deve essere effettuato un ECBU su un prelievo ottenuto mediante cistocentesi o, meglio, su un campione raccolto mediante pielocentesi, in particolare su tutti gli animali immunocompromessi o che presentano una sindrome febbrile; subito prima dell’esito degli esami va effettuato un trattamento antibiotico empirico, utilizzando un antibiotico, da somministrarsi per os, che diffonde nel parenchima renale, ad esempio un fluorochinolone.

A seconda dei risultati dell’antibiogramma si dovrà rivalutare la scelta dell’antibiotico o l’eventuale aggiunta di un secondo. Il trattamento va rivisto se dopo 72 ore non si è rivelato efficace, ricercando anche i fattori di rischio. La durata massina del trattamento è di 7-14 giorni; una o due settimane dopo la fine della terapia antibiotica, in assenza disegni clinici nonostante un ECBU positivo, è preferibile effettuare un monitoraggio clinico e biochimico.

Nell’uomo vengono utilizzate le cefalosporine di terza linea, le doppie terapie sono più rare, e i trattamenti non superano i 7-10 giorni al massimo.

La prostatite batterica

In caso di batteriuria nel maschio, dal momento che le infezioni urinarie sono rare, è importante indagare la presenza di prostatite batterica. Gli esami da effettuare primariamente sono l’esame rettale e l’ecografia; la citologia e la batteriologia, così come una PCR per micoplasmi e Brucella, possono essere effettuate sulla terza fase dell’eiaculato o su un agoaspirato da cisti prostatica.

Se si evidenzia un ascesso, questo va drenato e va messa in atto una terapia antibiotica empirica mirata agli enterobatteri con un antibiotico che diffonda bene nella prostata, come trimetoprim o fluorochinoloni (da preferire se si sospetta la brucellosi). In caso di resistenza a questi due antibiotici si può prendere in considerazione la clindamicina.

La prostatite acuta richiede 4 settimane di trattamento (da prolungare di due settimane quando si tratta di un’infezione cronica) e, in ogni caso, si consiglia la castrazione.

In assenza di risposta al trattamento, indagini ulteriori sono l’istologia, la citologia o anche la ricerca della mutazione B-RAF specifica per il carcinoma a cellule transizionali della vescica e della prostata.

Un controllo ecografico da 8 a 12 settimane dopo l’inizio del trattamento consente di monitorarne l’efficacia.

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