l fosforo (P) è un macroelemento essenziale per molte funzioni fisiologiche all’interno dell’organismo.
Presente all’interno di ossa e denti, coopera a mantenerne la necessaria rigidità.
I fosfolipidi sono il primo componente delle membrane cellulari, il legame di fosforilazione modula l’attività di diversi enzimi e, in conseguenza, del metabolismo cellulare. Inoltre, molecole trasportatrici di energia, utilizzano il legame col gruppo fosfato come metodo di stoccaggio della stessa. Lo stesso gruppo svolge funzione di tampone nei fluidi biologici, quali urine, fluido ruminale e plasma, aiutando a mantenere l’equilibrio acido base dell’organismo. Oltre a ciò, essendo l’anione intracellulare maggiormente presente, il P contribuisce al mantenimento dell’equilibrio osmotico e del potenziale transmembrana tra i comparti intra- ed extracellulare.
Infine, nei ruminanti, il P è necessario ai microrganismi ruminali per la fermentazione della cellulosa e la sintesi di proteine [15].
La distribuzione del fosforo nell’organismo
Nei mammiferi il P è stoccato in percentuali comprese tra l’80 e l’85% nelle ossa, sotto forma di sali insolubili, quali il fosfato di calcio Ca3(PO4)2 e l’idrossiapatite Ca10(PO4)6(OH)2. Il restante 15- 20% si divide tra gli spazi extracellulare (<1%) e intracellulare (la restante parte).
Il bilancio del P all’interno dell’organismo è il risultato dell’equilibrio tra ingresso ed escrezione di P e degli scambi tra tessuto osseo e comparto intracellulare con il comparto extracellulare. L’ingresso del P avviene esclusivamente attraverso il tratto gastroenterico, mentre le maggiori vie di escrezioni nei ruminanti sono il latte e le feci.
Una menzione particolare merita la saliva, che nella bovina è particolarmente ricca di fosfati, fattore che assicura un adeguato apporto di P alla microflora ruminale e, al tempo stesso, svolge la funzione di sistema tampone. La concentrazione del P nella saliva varia da 4 a 15 mmol/L, che è considerevolmente più alta della concentrazione ematica, compresa tra 1,4 e 2,6 mmol/L. Considerando che la produzione giornaliera di saliva di un animale adulto si aggira mediamente intorno ai 230 L, la quota di fosforo quotidianamente escreta attraverso questa via risulta pari a 25-100 g. L’80% di questa è riassorbita a livello intestinale e, quindi, il pool salivare non risulta perso, ma solo temporaneamente indisponibile per l’animale.
Valutazione del fosforo corporeo
In conseguenza della presenza di P nell’ampia varietà di distretti corporei descritta poc’anzi, risulta estremamente difficile trovare una metodica analitica per la determinazione del P in un singolo animale. Molti parametri sono stati proposti negli anni, quali il P ematico o sierico, la concentrazione di P nelle urine, nella saliva, nei globuli rossi, nel liquido ruminale, nelle feci o in altri tessuti molli.
La concentrazione plasmatica o sierica di P è abbastanza ben rappresentativa del P extracellulare, ma non del fosforo intracellulare, né di quello stoccato nelle ossa. Come tale, il P sierico reagisce a modificazioni di breve termine dell’apporto della dieta, ma carenze croniche vengono mascherate dai movimenti compensatori che avvengono dagli altri siti di stoccaggio.
La determinazione del P ematico viene anche sensibilmente influenzata dal sito da cui si opera il prelievo. Infatti, i prelievi dalla vena giugulare danno valori inferiori del 4-19% rispetto ai prelievi effettuati dalla vena coccigea, probabilmente per l’azione di sequestro del P operata dalle ghiandole salivari.
La concentrazione salivare di P è considerata meno accurata della concentrazione plasmatica o sierica. Ciò che rende difficile l’interpretazione del P salivare è il fatto che la concentrazione di P nella saliva varia tra le diverse ghiandole salivari e che la produzione delle ghiandole è diversa a seconda del momento della giornata. Inoltre, anche in condizioni di ipofosfatemia, il livello di P, nel breve termine, viene tenuto a livelli spropositatamente elevati.
Benché l’apparato urinario sia la principale via di escrezione del P negli animali monogastrici, l’escrezione di P che avviene per via urinaria nel bovino è generalmente inferiore all’1% dell’ingestione quotidiana. Inoltre, condizioni metaboliche come l’aciduria e l’aumento della circolazione del paratormone (PTH) conseguente all’ipocalcemia possono causare un aumento di escrezione di P nelle urine indipendentemente dal bilancio corporeo del P. La mancanza di una chiara relazione tra l’escrezione urinaria e il bilancio corporeo di P rende inutilizzabili parametri quali la concentrazione urinaria di P o il rapporto P/creatinina.
Il contenuto di P nelle ossa viene considerato rappresentativo delle riserve di P dell’organismo, ma non dei comparti intra- ed extracellulare, dal momento che questi due comparti sono molto suscettibili a variazioni di breve termine del rapporto ingestione/escrezione di P, mentre il comparto osseo risponde a stati cronici di disequilibrio. Inoltre, la difficoltà di realizzazione di una biopsia ossea rende questa tecnica poco utilizzabile in campo.
Il tessuto muscolare è stato proposto come tessuto di elezione per la determinazione del P corporeo, poiché è quantitativamente molto importante all’intero del corpo dei mammiferi e perché tra i segni clinici causati all’ipofosfatemia ve ne sono alcuni associati al tessuto muscolare. P sierico e muscolare sono risultati correlati in modo non lineare: al decrescere nel breve periodo del P nel comparto extracellulare segue la decrescita, benché più lenta, nel comparto intracellulare.
L’ipofosfatemia
L’ipofosfatemia, nella pratica clinica, si definisce come una concentrazione di fosforo nel siero o nel plasma inferiore al limite minimo dell’intervallo di riferimento. È principalmente per ragioni di praticità che la concentrazione di P nel siero o nel plasma è il parametro più consolidato per valutare le riserve di P in un animale.
Benché l’ipofosfatemia sia più comunemente riscontrata in bovine diagnosticate con almeno un evento patologico (collasso puerperale, dislocazione abomasale, chetosi o lipidosi epatica) oppure nell’immediato post-parto, è tuttavia bene notare come l’utilizzo di profili metabolici abbia evidenziato che un numero relativamente alto di bovini clinicamente sani, nei primi giorni dopo il parto, mostra subnormali concentrazioni ematiche di P.
In conseguenza, è nato un lungo dibattito riguardante l’interpretazione dell’ipofosfatemia, con parte della comunità scientifica orientata a considerare l’ipofosfatemia come una conseguenza della diminuzione dell’appetito che si registra in occorrenza del parto o degli eventi patologici e un’altra parte più orientata a considerare l’ipofosfatemia come una concausa degli stessi o ancora come un segno fisiologico di adattamento del metabolismo dal periodo di asciutta alla lattazione.
Ad oggi, la questione se l’ipofosfatemia transitoria post-parto, priva di segni clinici, sia uno sviluppo fisiologico dopo il parto o piuttosto un presagio di un disturbo metabolico subclinico che potrebbe potenzialmente influenzare la salute o la produttività di una vacca da latte ad alta produzione, rimane irrisolta.
Una questione distinta dal dibattito sulla rilevanza dell’ipofosfatemia per la salute e la produttività riguarda l’idoneità del livello di P nel siero o nel plasma come indicatore per identificare animali con un bilancio negativo di P. Attualmente, l’ipotesi prevalente è che il P nel plasma o nel siero rifletta solo il pool di fosforo extracellulare del corpo, equivalente a meno dell’1% del fosforo totale e, pertanto, questo parametro dovrebbe solo essere considerato principalmente come un indicatore dell’apporto di fosforo a breve termine attraverso l’alimentazione.
Il P nel siero o nel plasma non è invece particolarmente adatto a identificare animali cronicamente carenti di fosforo o per valutare la gravità della deplezione del fosforo totale a causa dei meccanismi di compensazione, quali la mobilizzazione ossea e l’aumento dell’assorbimento di fosforo dall’intestino.
Ipofosfatemia: patogenesi
L’ipofosfatemia può essere conseguente a tre diversi meccanismi:
- insufficiente apporto di P con la dieta: è comunemente rilevata dopo 2-3 giorni consecutivi di anoressia, sebbene diete o pascoli carenti di P possano causare deficienze acute, nel breve termine, o croniche (normalmente animali normofosfatemici, ma con deplezione delle riserve), nel lungo periodo
- eccessiva perdita di P attraverso latte, feci o urine: la perdita di P con il latte è probabilmente il principale e quantitativamente più importante esempio di questa seconda fattispecie. Tuttavia, è importante sottolineare come condizioni che portano ad aciduria (chetosi o diete anioniche) tendano a incrementare la perdita renale di P
- redistribuzione del P dal comparto extracellulare a quello intracellulare: è un evento che consegue, ad esempio, a picchi ematici di insulina. La somministrazione endovenosa di destrosio, sia come iniezione rapida sia in infusione continua, riduce la concentrazione plasmatica di fosfato inorganico ([Pi]) intorno al 30% entro pochi minuti.
È importante notare come i primi due meccanismi comportino un reale impoverimento delle riserve corporee di P, mentre il terzo porti a una ipofosfatemia senza alcuna modifica del quantitativo totale di P corporeo. È evidente, inoltre, che due o tutti i meccanismi elencati possano coesistere in un singolo evento.
Ad esempio, nella vacca fresca, si registra comunemente un calo dell’ingestione di sostanza secca (ISS), che unito all’aumento di produzione lattea può portare alla chetosi (sub)clinica. In questo esempio si ha un calo di ISS e quindi un calo di ingestione di P, un aumento dell’escrezione di P per via mammaria (attraverso la produzione lattea) e urinaria (per la chetonuria) e, in caso di trattamento dell’animale tramite somministrazione endovenosa di glucosio, si verifica anche lo spostamento del P dal comporto extracellulare a quello intracellulare a seguito dell’azione dell’insulina.
Ipofosfatemia: epidemiologia
L’ipofosfatemia è maggiormente frequente nell’immediato post-parto, in animali anoressici e in animali affetti da paresi puerperale.
Studi effettuati in Gran Bretagna hanno evidenziato come il 25% degli animali testati tra 0 e 20 giorni dopo il parto sono ipofosfatemici. Uno studio condotto in Germania su più di 7.000 bovine clinicamente sane testate il primo giorno dopo il parto ha evidenziato una prevalenza dell’ipofosfatemia superiore al 50%.
Ipofosfatemia: segni clinici
Tradizionalmente, l’ipofosfatemia è associata a debolezza muscolare, a paresi puerperale non responsiva alla somministrazione di Ca, anemia associata a emolisi intravascolare ed emoglobinuria, indebolimento del sistema immunitario, calo dell’ingestione di sostanza secca, appetito capriccioso o pica.
Effetto sull’ingestione della sostanza secca
L’effetto dell’ipofosfatemia causata da una dieta carente di P sull’ISS (ingestione di sostanza secca) è stato descritto in diversi studi con risultati variabili. Ad esempio, Eisenberg e colleghi1 hanno registrato un ampio divario tra l’ISS media di animali il cui fabbisogno di P era stato coperto durante le 4 settimane antecedenti il parto e le 4 settimane successive il parto e l’ISS media di animali nutriti con una dieta carente di P durante lo stesso periodo.
In particolare, il contenuto di P per le razioni sperimentali preparto e postparto era rispettivamente di 0,15 e 0,28% (% SS), mentre il contenuto in P per le razioni di controllo preparto e post-parto era rispettivamente di 0,20 e 0,44% (% SS).
Le differenze di ISS sono riportate in figura.

Da Eisenberg et al. 2019.
Come si nota a partire dalla seconda settimana dopo il parto, le due curve divergono in modo sostanziale nelle bovine alimentate con la razione di controllo, che superano i 20 kg di ISS intorno al 20 giorno post-parto, mentre il gruppo sperimentale rimane intorno ai 15 kg. Le differenze si annullano intorno al 40° giorno post-parto, all’incirca 10 giorni dopo che la dieta sperimentale viene sospesa e tutti gli animali ricevono la stessa alimentazione allo 0,44% di P.
Per contro, nel periodo antecedente il parto, non si sono registrate differenze dell’ISS e questo risultato è coerente con un altro studio2 che confrontava l’ISS tra due diete d’asciutta, la prima contenente 0,15% e la seconda 0,35% di P (% SS).
È tuttavia importante sottolineare come l’ISS nel preparto sia stata artificialmente limitata, sia nello studio di Eisenberg et al. (12,5 kg) sia nello studio di Wächter et al. (11,5 kg). Questo intervento è stato necessario per mantenere l’assunzione giornaliera di P al di sotto della soglia di 20 g/giorno, valore al di sotto del quale l’organismo inizia a entrare in bilancio negativo di P.
In un terzo studio3, 10 vacche tra 100 e 200 giorni post-parto sono state esposte a una dieta povera di P (0,18% SS) per un periodo di 5 settimane. Anche in questo caso non sono state registrate variazioni di ISS.
Questi risultati sono anche parzialmente in linea con altri due studi che hanno portato le concentrazioni di P per la razione da lattazione a 0,23% (% SS)4 e 0,24% (% SS)5, ma con differenze nella durata degli esperimenti: 21 mesi e quasi 2 lattazioni e 24 settimane. In entrambi questi studi è stato riscontrato un significativo calo dell’ISS nel periodo del post-parto, ma Valk e Sebek hanno registrato anche un significativo calo dell’ingestione nel periodo di asciutta; nessuno dei due studi ha identificato alcun effetto una volta superato il picco di produzione.
Trarre conclusioni definitive dagli studi citati è alquanto rischioso dal momento che, al meglio delle conoscenze degli autori, questi studi non sono ancora stati replicati e dunque mancano le necessarie validazioni dei risultati ottenuti. Va precisato che gli studi di Wächter, Puggaard ed Eisenberg sono studi sperimentali randomizzati e controllati, la più alta forma di studio sperimentale nella gerarchia delle fonti e, pertanto, la validità intrinseca degli studi è alta. Gli studi di Grünberg, Valk e Sebek sono invece studi osservazionali, la cui validità intrinseca è media.
Se tuttavia si volesse provare ad azzardare una sintesi, si potrebbe ipotizzare che l’ipofosfatemia è causa di iporessia nell’immediato post-parto se l’animale è già stato esposto a un periodo di deplezione di P (non è stata infatti provata la combinazione: dieta adeguata in P durante il periodo di asciutta e povera di P nell’immediato post-parto). Questo legame non è stato trovato o replicato in periodi in cui l’animale è metabolicamente più stabile, ossia dopo il picco di produzione e durante il periodo di asciutta.
Il razionale biologico per questa differenza risiederebbe nell’attivazione dei meccanismi compensativi che, sebbene non in grado di mascherare la perdita nello spazio extracellulare, riuscirebbero a salvaguardare le concentrazioni e le funzioni P-dipendenti negli spazi intracellulari. Gli stessi meccanismi potrebbero non riuscire a compensare nel momento in cui, oltre all’insufficiente apporto di P, vi fosse un’aumentata escrezione dello stesso attraverso la produzione di latte. Rimane tuttavia ancora da chiarire in qual modo la carenza di P possa causare il calo di ISS.
Debolezza muscolare non responsiva alla somministrazione di calcio
Una condizione ampiamente ritenuta associata all’ipofosfatemia, in particolare nella vacca fresca, è la sindrome della vacca a terra. In particolare, l’osservazione empirica che l’ipofosfatemia è un ritrovamento comune nelle vacche affette da paresi puerperale, soprattutto nei casi non responsivi al trattamento endovenoso con sali di calcio, ha portato alla supposizione ampiamente condivisa che l’ipofosfatemia possa essere un fattore causale o di rischio di questa patologia.
Le vacche colpite si trovano comunemente nei primi giorni dopo il parto, con stato del sensorio vigile, una postura che suggerisce paresi degli arti posteriori e, come detto, non rispondono alla somministrazione di calcio. Indagini di laboratorio spesso identificano un’associazione di ipofosfatemia ed ipocalcemia; tuttavia, il ruolo del P nell’eziologia della sindrome della vacca a terra rimane, a oggi, ignoto.
La diminuzione sperimentale della concentrazione plasmatica di P fino a 0,3 mmol/L, limitando l’assunzione di P nella dieta, non ha portato a decubito o a segni di debolezza muscolare clinicamente rilevabili. Nonostante vari tentativi riportati in letteratura, al meglio delle conoscenze degli autori, a oggi nessun gruppo di ricerca ha avuto successo nell’indurre episodi di paresi a seguito di carenze da P.
I modelli studiati comprendevano periodi eccezionalmente lunghi di privazione da P, studi su vacche fresche6, nonché il tentativo di indurre l’ipofosfatemia causando uno spostamento del P dal comparto extracellulare a quello intracellulare tramite picco di insulina7. Le biopsie muscolari condotte su queste vacche hanno rivelato contenuti inalterati di fosforo totale, creatina fosfato e fosfati di adenosina nel tessuto muscolare durante tutto il periodo di studio, evidenziando come, a seguito di caduta nella concentrazione di P nei fluidi extracellulari, non consegua una corrispondente diminuzione nello spazio intracellulare, almeno nel tessuto muscolare.
Gli esami elettromiografici condotti su questi animali hanno invece evidenziato una frequenza aumentata di disturbi subclinici della funzione muscolare non abbastanza pronunciati da divenire clinicamente evidenti, ma correlati con le dinamiche delle concentrazioni di P del comparto extracellulare.
A sostegno dell’ipotesi di un coinvolgimento del P nella sindrome della vacca a terra vi sono alcuni studi8 in cui è stato registrato un miglioramento dei tassi di guarigione su animali a terra da almeno 24 ore in cui, alla terapia per l’ipocalcemia, si è aggiunta un’integrazione di fosfati9. Tuttavia, quando l’ipofosfatemia viene presa come criterio prognostico senza considerare la terapia, non risulta essere predittiva di esiti diversi, né in positivo né in negativo, rispetto alla normofosfatemia.
In sintesi, le prove attualmente disponibili suggeriscono che, nei bovini, l’ipofosfatemia o la privazione di fosforo di per sé, a un livello che può verificarsi nella pratica senza l’uso di leganti del fosforo, non comporta disturbi clinicamente evidenti della funzione muscolare. È tuttavia concepibile che l’ipofosfatemia o la privazione di fosforo possano causare decubito quando si verificano in combinazione con un altro fattore contributivo, finora non determinato.
Emoglobinuria postparto
Un’altra condizione patologica storicamente associata all’ipofosfatemia è l’emoglobinuria post-parto (Postparturient Haemoglobinuria, PPH). Gli animali che ne sono affetti sviluppano un’emolisi intravascolare sufficientemente grave da causare emoglobinuria e, talvolta, un’anemia potenzialmente fatale nel giro di pochi giorni.
La peculiarità di questa condizione è che interessa solitamente un numero molto ristretto di animali, anche quando l’ipofosfatemia colpisce un ampio numero di soggetti.
La causa presunta dell’emolisi intravascolare è la deplezione intracellulare di ATP nei globuli rossi dovuta alla carenza intracellulare di P. I globuli rossi necessitano di ATP, tra le altre cose, per controllare il volume cellulare e la deformabilità attraverso l’espulsione attiva del sodio.
In uno studio del 2015, Grünberg e colleghi10 testarono questa ipotesi inducendo uno stato di ipofosfatemia in vacche pluripare Holstein, tutte tra 100 e 200 giorni di lattazione. Nello studio in questione, la durata del periodo sperimentale è stata di 5 settimane. In questa finestra temporale, 10 animali sono stati nutriti con una dieta carente di P (0,20% SS) e campioni di sangue sono stati prelevati dalla vena giugulare 1, 3 e 5 settimane dopo l’inizio della sperimentazione.
Benché la formulazione sia riuscita a causare un episodio di ipofosfatemia almeno nelle prime 3 settimane, già a partire dalla settimana 3, i meccanismi di compensazione hanno iniziato a ristabilire l’equilibrio omeostatico del P e, alla settimana 5, la fosforemia non era più statisticamente differente dai valori presperimentali.
A differenza del comparto extracellulare, la concentrazione di P all’interno dei globuli rossi non è mai variata durante il periodo di deplezione del P così come la sensibilità dei globuli rossi ai disequilibri osmotici.

La concentrazione plasmatica di P raggiunge il suo punto più basso dopo una settimana di sperimentazione, per poi iniziare a risalire. Alla 5° settimana la [P] non è dissimile dal campione prelevato in fase presperimentale; alla settimana 7 la [P] è molto al di sopra dei valori iniziali.
Da Grünberg et al. 2015.

La concentrazione di P all’interno non sembra risentire del calo osservato nel comparto extracellulare, tuttavia si registra un aumento corrispondente all’aumento della fase di reintegro del P.
Da Grünberg et al. 2015.

Le due linee tratteggiate corrispondono alla concentrazione di NaCl in cui si registra un grado di emolisi del 10% (linea superiore) o del 90% (linea inferiore). La resistenza agli shock osmotici dei globuli rossi non varia al variare della fosforemia.
Da Grünberg et al. 2015.
In uno studio più recente11 effettuato dallo stesso gruppo di ricerca sono invece stati selezionati animali durante la fase di transizione. La struttura dello studio è la stessa descritta per il già citato studio di Eisenberg, compresi i valori di P delle razioni di asciutta e di lattazione. Delle 18 vacche (su 36 totali) nutrite con dieta carente di P, ben 5 hanno sviluppato sintomi clinici di PPH. Gli autori dello studio hanno anche descritto per la prima volta una forma subclinica di PPH caratterizzata da assenza di sintomi clinici, ma con una decrescita del PCV >20%.
In questo secondo studio, sia gli animali con forma clinica sia quelli con forma subclinica di PPH hanno mostrato un aumento della fragilità osmotica dei globuli rossi, una diminuzione del numero totale degli stessi gli stessi e un picco di bilirubina plasmatica corrispondente nel tempo alla decrescita dei globuli rossi. L’interpretazione suggerita è che la dieta sperimentale sia riuscita a causare un’emolisi intravascolare in un sottogruppo di animali e che vi sia una correlazione tra ipofosfatemia e maggiore sensibilità degli eritrociti ai danni osmotici.
Delle 5 vacche che hanno sviluppato la forma clinica di PPH, 3 sono state trattate con diidrogenofosfato di sodio (NaH2PO4) che, nonostante il successo nel riportare la [P] plasmatica nell’intervallo di normalità, non è riuscito a fermare l’emolisi e far regredire l’emoglobinuria. I 3 animali sono poi stati sottoposti a due trasfusioni sanguigne (ciascuna da 5L) a seguito delle quali si è ottenuta la normalizzazione del quadro clinico. I restanti 2 animali non sono stati trattati in alcun modo, dal momento che il loro PCV non è mai disceso al di sotto del 15%, ma sono invece stati monitorati e hanno potuto completare lo studio. In entrambi i casi l’emoglobinuria si è spontaneamente risolta dopo 1 settimana circa.
Così come per l’ISS, anche per la PPH vi sono indicazioni che gli animali rispondano diversamente a seconda dello stato metabolico in cui si trovano.
Nello studio di van den Brink, la privazione di P in animali nella fase di transizioni ha avuto un esito evidentemente più grave rispetto agli animali (tutti tra 100 e 200 giorni di lattazione) dello studio di Grünberg. Lo studio di van den Brink ha inoltre avuto il merito di evidenziare una forma di anemia emolitica subclinica mai descritta prima.
Resta invece ancora da delucidare il meccanismo patogenetico attraverso cui la carenza di P alimentare porta alla debolezza strutturale gli eritrociti. L’ipotesi secondo cui la carenza di P porti a deplezione di ATP e blocco delle pompe Na/K e, quindi, a maggiore suscettibilità da danno osmotico, non ha trovato univoche conferme (o smentite) dallo studio; per cui la questione rimane, almeno per il momento, aperta.
Indebolimento del sistema immunitario
L’effetto dell’ipofosfatemia sul sistema immunitario è stato anch’esso oggetto di studio, sempre con risultati variabili.
In uno studio del 201412, effettuato su 8 bovine tra 100 e 200 giorni di lattazione, l’ipofosfatemia generata da una dieta povera di P (0,2% SS) ha portato a un decremento della conta dei granulociti e delle cellule B. Conta che, nella fase di reintegro del P, è nuovamente salita, sebbene non ai livelli presperimentazione.
L’interpretazione degli autori è stata che la deplezione di P abbia portato a una depressione reversibile dell’attività linfoproliferativa del midollo osseo. La capacità di fagocitosi dei granulociti è invece risultata invariata, non influenzata dalla fosforemia.
Uno studio più recente13, effettuato su 9 vacche fresche, ha ugualmente mostrato un lieve effetto sulla conta dei granulociti, ma anche un effetto sulla capacità di fagocitosi.
Le informazioni disponibili al momento lasciano supporre che livelli estremamente bassi di P plasmatico possono influenzare il funzionamento del sistema immunitario, ma, al meglio delle conoscenze degli autori, prove riguardanti la rilevanza clinica in termini di incidenza delle patologie a sostegno di questa tesi non sono ancora state fornite.
Terapia e prevenzione
La necessità di trattare un animale con ipofosfatemia è da molto tempo oggetto di dibattito. Le perplessità riguardano in particolare i seguenti punti:
- se e in quale misura l’ipofosfatemia è un parametro idoneo a valutare la deplezione di P dell’organismo
- quanto questo parametro è clinicamente rilevante
- se l’ipofosfatemia è la causa o non piuttosto la conseguenza o persino solo un riscontro accidentale in un animale malato
A seguito di quanto esposto nel corpo dell’articolo si può sostenere che vi siano alcuni lavori scientifici di alta qualità che indicano che l’ipofosfatemia nell’immediato post-parto può essere causa principale o contribuente dell’inappetenza e che la risoluzione dell’ipofosfatemia in questa fase ristabilisce il normale appetito e la normale produzione di latte.
Vi sono anche prove scientifiche del fatto che l’ipofosfatemia sia causa scatenante l’emoglobinuria post-parto; tuttavia, nei 5 animali affetti da PPH dello studio di van den Brink, 3 non hanno risposto alla terapia con P, ma sono stati invece trattati con trasfusioni di sangue (10L/capo), mentre 2 sono guariti senza alcuna terapia e l’emoglobinuria si è risolta spontaneamente entro 1 settimana, mentre agli animali veniva ancora offerta una dieta carente in P. Non vi sono dunque al momento prove a sostegno dell’integrazione di P come terapia della PPH.
Al meglio delle conoscenze degli autori, a oggi non esistono invece prove certe che l’ipofosfatemia sia coinvolta nella sindrome della vacca terra, né che livelli ematici di P pretrattamento al di sotto dei valori di riferimento abbiano alcun valore prognostico e gli studi che indagano l’aggiunta di P nella terapia della vacca a terra hanno forti limitazioni e riportano esiti contraddittori.
Qualora un libero professionista decidesse comunque di includere il P nei suoi protocolli terapeutici, un ultimo punto degno di nota è il sale in cui il P è incluso. In particolare, i sali di calcio (Ca(H2PO4)2) e di magnesio (MgHPO4) si sono rivelati poco efficaci nell’innalzare i livelli plasmatici di P, probabilmente perché scarsamente solubili. Andrebbe invece del tutto evitata la somministrazione di P sotto forma di fosfiti ((HPO3)2-) o ipofosfiti (H2PO2-) poiché l’unica forma biologicamente attiva nei mammiferi è il fosfato ((PO4)3-) e non è stata ancora individuata a oggi una via di conversione di (ipo-)fosfiti in fosfati.
Per contro, i sali monosodiofosfato (NaH2PO4) disodiofosfato (Na2HPO4) o monopotassiofosfato (KH2PO4) sono risultati ugualmente efficaci nel ristorare la fosforemia.
Per quanto riguarda la prevenzione dell’ipofosfatemia post-parto, un recente lavoro ha mostrato come un basso contenuto di P in asciutta aiuti a mantenere una normale fosforemia nel post-parto.
Piuttosto intuitivamente, invece, non sembra che la dieta anionica aiuti a mantenere le concentrazioni di P nel post-parto.
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