Tra le prime 10 città al mondo che hanno perso più giornate di gelo, tre sono italiane; il riscaldamento globale, con la minor durata del manto nevoso, favorisce il mantenimento delle popolazioni di vettori di malattie, e non solo.

Il tema del riscaldamento globale è “molto caldo” e viene spesso chiamato in causa anche per quanto riguarda gli effetti che le variazioni del clima hanno sulla possibile trasmissione di agenti patogeni negli animali d’affezione.

In genere si parte dal presupposto che “maggiore temperatura uguale espansione verso Nord di patogeni e vettori tipici di aree tropicali o sub-tropicali”, ma ci si dimentica che questo comporta anche l’estensione della stagionalità di molti patogeni, soprattutto quelli trasmessi da vettori.

Ezio Ferroglio, Anna Trisciuoglio e Stefania Zanet del Dipartimento di Scienze Veterinarie, Università di Torino, hanno analizzato la situazione Italiana.

Il riscaldamento globale: non chiacchiere da bar

Le informazioni che arrivano dai media sono sicuramente preoccupanti e proprio a inizio 2025 sono circolati i risultati di una ricerca a livello globale che hanno mostrato come l’Europa sia il continente che ha maggiormente risentito del riscaldamento globale invernale e come le città italiane siano tra quelle a livello mondiale più interessate da questo fenomeno.

Dal 1985 al 2023 a Torino si è passati da 79 a 26 giornate di gelo, e il dato è ancor più drammatico se si pensa che 30 delle 53 giornate di gelo mancate sono state perse nell’ultimo decennio. Tra le città che hanno perso giornate di gelo, tre delle prime 10 al mondo sono italiane; oltre a Torino, infatti, anche Verona e Brescia (con rispettivamente 29 e 26 giorni con temperatura sotto lo 0 °C persi nell’ultimo decennio) rientrano nella classifica delle città che hanno maggiormente patito il riscaldamento invernale del clima.

Anche se queste tre città spiccano, tuttavia il fenomeno riguarda tutto il Paese con Milano che perde 22 giorni di gelo e Bologna 15, mentre Roma passa da 25 a una sola giornata con gelo. Quindi non sono solo chiacchere da bar, ma effettivamente si tratta di un evidente cambiamento nelle temperature che ha impatti notevoli nella trasmissione dei patogeni.

Un maggior densità dei vettori della leishmaniosi

Tra i vari fattori che regolano la trasmissione di Leishmania vi è la densità di vettori. Ad esempio, più flebotomi ci sono, maggiore sarà il rischio che una femmina faccia il pasto di sangue su di un ospite infetto e possa trasmettere poi il parassita a un altro ospite. I dati raccolti diversi anni or sono dimostrano chiaramente come la densità di flebotomi nel primo picco (quello di fine primavera-inizio estate) fosse collegata con le temperature invernali.

Più freddo in inverno porta a una diminuzione di flebotomi l’estate successiva, poiché il gelo invernale probabilmente porta a un’aumentata mortalità delle larve in inverno e, di conseguenza, un minor numero di flebotomi adulti in estate.

Quindi i cambiamenti climatici in questi ultimi decenni non solo hanno permesso ai flebotomi, e di conseguenza a Leishmania, di estendere l’areale all’Italia settentrionale, ma hanno anche portato a una maggiore densità dei vettori in molte aree.

Quindi, anche se da un lato abbiamo sviluppato nuovi strumenti, uso di piretroidi e vaccini, che ci permettono sensibilmente di ridurre il rischio di trasmissione di Leishmania, dall’altro la maggior densità di flebotomi (che può derivare da una loro maggiore sopravvivenza invernale) può parzialmente mitigare questi risultati.

Ovviamente il riscaldamento globale condiziona anche la stagionalità in cui i ditteri sono attivi e per i flebotomi la stagione si è allungata. Per cui, se in passato gli adulti si potevano trovare da maggio a ottobre, oggigiorno in alcune località la stagione di attività per loro si è ormai estesa da aprile a novembre.

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I flebotomi hanno un lungo ciclo larvale che dura mesi e sopravvivono da un anno all’altro come larve L4 (nella foto) in diapausa. Se la temperatura del suolo non scende molto al di sotto di 0 °C, come sta accadendo negli ultimi anni, la loro sopravvivenza aumenta e quindi aumenta anche la densità di flebotomi adulti l’estate successiva. © E. Ferroglio.

Zanzare: stagione di attività estesa e più resistenza al freddo

Quanto detto per i flebotomi è ancor più vero per le zanzare per le quali, complice anche la comparsa di nuove specie più resistenti al freddo, la presenza arriva tranquillamente a novembre anche in molte aree del nord Italia. L’esperienza diretta di zanzare attive in aree pedemontane anche nella prima decade di novembre stressa la necessità di continuare la profilassi per la dirofilariosi fino alla fine di novembre.

Questo perché sappiamo bene come a fine stagione la prevalenza di vettori infetti sia generalmente maggiore (hanno avuto opportunità di fare più pasti di sangue e quindi di infettarsi/infestarsi) e quindi anche pochi di loro possono rappresentare un rischio concreto.

E non dimentichiamo che la zanzara tigre (Aedes albopictus) può sopravvivere fino a tre mesi. Ovviamente temperature più alte non solo permettono ai ditteri di essere attivi (i flebotomi lo sono generalmente con temperature notturne superiori ai 15 °C), ma permettono anche lo sviluppo delle forme parassitarie assunte (le microfilarie necessitano di almeno 14 °C per svilupparsi da L1 a L3).

Quindi, le primavere anticipate e gli autunni caldi favoriscono non solo la presenza di vettori attivi, ma anche lo sviluppo delle forme parassitarie al loro interno e quindi aumenta effettivamente il rischio che queste ultime possano venire trasmesse ai nostri animali e/o a noi.

Esiste poi la possibilità che alcune zanzare, soprattutto le specie di recente importazione, possano sopravvivere anche in inverno ed essere attive nelle aree riscaldate delle abitazioni.

Sulla possibilità di trasmissione invernale di patogeni è interessante notare come in Finlandia la malaria era frequentissima, 20-50.000 casi ogni 100.000 abitanti, fino a fine ‘800 e la trasmissione avveniva proprio in inverno all’interno delle abitazioni dove in questa stagione, per riscaldarsi, intere comunità si riunivano in un’unica grande abitazione.

Quindi, anche se noi adesso siamo abituati a pensare a malattie tropicali che “migrano” verso nord, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. In un’epoca in cui era ancora attiva la piccola glaciazione, la fredda Finlandia aveva migliaia di casi di malaria perché le due specie di zanzare coinvolte nella trasmissione, Anopheles messeae e Anopheles beklemishevi, a fine estate trovavano rifugio nelle abitazioni dove sopravvivevano fino all’estate successiva.

Informiamoci sulla distribuzione stagionale dei vettori nella nostra zona

Quest’esempio della malaria in Finlandia dovrebbe farci riflettere su come in natura non sempre ci siano relazioni lineari, come noi siamo spesso invece abituati a pensare. Dovrebbe anche farci riflettere sul fatto che il riscaldamento globale è ulteriormente esaltato nelle aree urbane, perché le attività umane concentrate nello spazio ristretto portano a un ulteriore aumento della temperatura di 3-5 °C, che in alcuni casi si è visto può raggiungere i 6 °C, superiore alla temperatura ambientale.

È evidente che in queste condizioni il rischio di avere zanzare attive anche nei mesi invernali è una possibilità da non trascurare. Ciò che spesso manca e su cui invece dovremmo attivarci come veterinari ambulatoriali è informarci sulla distribuzione stagionale dei vettori nella nostra zona.

Come tenersi aggiornati

Ci sono molteplici iniziative che monitorano la presenza di vettori gestite dalle Regioni, spesso in collaborazione con gli IZS, e che forniscono indicazioni sulla presenza delle diverse specie di zanzare durante l’anno.

Uno degli strumenti però che potrebbe dare maggiori indicazioni sulla situazione dell’area in cui un veterinario opera è l’utilizzo di strumenti di citizen science. Esistono ad esempio delle app che permettono a chiunque di segnalare la presenza di zanzare e che potrebbero aiutarci da un lato ad ottenere dati per il contesto in cui operiamo e dall’altro anche a sensibilizzare i proprietari sui cambiamenti in atto e quindi anche sulla necessità di adeguare gli schemi di profilassi.

Nel cuore dell’inverno… le zecche!

Se per i ditteri l’aumento delle temperature invernali, come visto, può aumentare la loro stagionalità e densità ma, tutto sommato, almeno nel cuore dell’inverno ci lascia fondamentalmente liberi dai rischi da loro rappresentati, altrettanto non si può dire delle zecche, anzi.

Partiamo innanzitutto dal presupposto che quando parliamo di stagionalità nel caso delle zecche spesso quello che osserviamo andando a cercarle nell’ambiente con il dragging o cercandole sugli animali non è tanto la loro reale presenza, quanto il fatto che in quel momento sono attive e in cerca di ospiti.

Le zecche, almeno quelle che vivono alle nostre latitudini, per essere attive hanno bisogno, oltre alla temperatura, anche di umidità. Questo spiega perché in piena estate la loro presenza sembra diminuire e spiega anche perché il picco di presenza, usualmente da marzo a maggio, in alcuni periodi si sposti da fine aprile a luglio (con prevalenze elevate addirittura durante la prima decade di agosto).

Negli ultimi anni, infatti, ci sono state primavere estremamente piovose da marzo a maggio per cui in questi mesi le zecche sono poco attive per le temperature non elevate a livello del suolo umido. Tuttavia, quando le piogge si chetano le temperature al suolo si alzano, e si ha letteralmente un’esplosione di zecche.

Microclimi ideali in città, rinaturalizzazione del territorio…

Proprio perché da alcuni anni c’era un aumento di segnalazioni di cani e gatti su cui i proprietari trovavano zecche, abbiamo condotto con l’aiuto di alcuni colleghi un’indagine in alcune aree del Nord Italia. I risultati sono stati per molti versi impressionanti perché hanno confermato non solo la presenza di zecche su cani e gatti nei mesi invernali, ma lo hanno fatto in aree alpine dove fino a poco tempo fa tutto questo sembrava impossibile.

I dati mostrano chiaramente come sia i cani sia i gatti siano infestati da zecche anche nei mesi invernali, anche se ovviamente con prevalenze inferiori a quelle dei mesi di picco. Tuttavia, i dati certificano come la presenza di zecche sia realmente costante durante tutto l’arco dei mesi e che le specie coinvolte, Rhipicephalus sanguineus s.l. e Ixodes spp, ci segnalino un altro importante cambiamento.

La prima specie è tipicamente legata agli ambienti umani (gli inglesi, infatti, la chiamano the kennel tick) e quindi si automantiene in cani che vivono in canile o all’aperto in giardino. Come abbiamo detto, le temperature aumentano in inverno e le attività umane disperdono calore (basta vedere come si scioglie la neve attorno alle case dopo una nevicata o l’erba brinata che spesso parte a qualche metro dai muri proprio perché il calore disperso riscalda comunque l’ambiente circostante); immaginate quindi i nostri parchi urbani o i giardini delle case quale microclima ideale possano rappresentare per queste zecche.

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A spasso nei campi o liberi nel giardino di casa, per i cani il rischio di incontrare una zecca non è poi così remoto. Magari non nei prati rasati, ma dove c’è erba alta o arbusti il rischio sicuramente aumenta.
© E. Ferroglio.

Non solo, noi siamo abituati a percepire la temperatura come temperatura dell’aria intorno a noi, ma sappiamo benissimo che la temperatura al suolo può essere molto diversa. Il suolo si riscalda più lentamente dell’aria, ma trattiene di più il calore. Inverni con meno giornate di gelo ovviamente comportano una maggiore temperatura del suolo e questo fa sì che ci possano essere condizioni “buone” per le zecche che possono quindi essere attive anche nei mesi invernali.

Ormai da diversi anni si parla di un aumento delle segnalazioni di zecche in cani e gatti anche nei mesi invernali, spesso però a riguardo c’è un certo scetticismo da parte di proprietari… e anche dei veterinari. Purtroppo, invece, il fenomeno è reale e si basa non solo sulla raccolta di informazioni aneddotiche ma anche su dati oggettivi.

La maggior parte delle zecche ritrovate in aree alpine in inverno appartiene al genere Ixodes: non solo I. ricinus (la zecca dei boschi legata ad ambienti silvestri e alla presenza di fauna selvatica), ma anche I. hexagonus (detta anche la zecca dei ricci e più facile da trovare ad esempio nei giardini e nei parchi urbani). Questo ci porta a considerare un altro aspetto della questione che è spesso sottovalutato, ovvero la presenza di selvatici anche in prossimità delle aree abitate.

La rinaturalizzazione del territorio, aspetto sicuramente positivo per la salvaguardia della biodiversità, ha come conseguenza anche questo “effetto collaterale” che può interessare i nostri pet sia quando sono liberi attorno alle abitazioni, proprio per la frequentazione dei selvatici di aree ormai antropizzate, sia ancor di più quando li portiamo a fare una passeggiata nei boschi.

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Una femmina di Dermacentor trovata sul manto di un lupo investito a gennaio. Testimonianza non solo della presenza di zecche attive anche in inverno, ma anche del ruolo giocato dai selvatici nella loro epidemiologia. © E. Ferroglio.
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Un maschio di Dermacentor. © E. Ferroglio.

Ormai non ci stupiamo più quando, facendo dragging a gennaio, troviamo zecche attive, magari a poche decine di metri da dove c’è ancora della neve. Anche se, ad onore del vero, già alcuni lustri fa si trovavano zecche attive a gennaio nei boschi soprattutto nelle ore più calde e sui pendii più soleggiati.

Quello che è cambiato è che oggi questo è molto più frequente e può accadere anche oltre i mille metri di quota. Quindi non solo l’innalzamento della temperatura, ma anche il suo abbinamento a un diverso uso del suolo e all’aumentare, di conseguenza, di molte specie selvatiche, che ne è in parte conseguenza, rappresentano un importante fattore nel determinare l’emergenza di nuovi vettori e parassiti che stiamo osservando.

Come conseguenza nelle aree alpine, oltre alla presenza di zecche in inverno, vi è anche una loro “risalita” di quota.

… e minore presenza al suolo della neve

Se, come abbiamo detto all’inizio, le città si stanno riscaldando, occorre rilevare come questo accada anche nelle aree alpine. Nelle Alpi l’aumento delle temperature medie annuali negli ultimi 150 anni ha superato i 2 °C, quasi il doppio del riscaldamento misurato su scala globale, e questa tendenza ha avuto un’accelerazione a partire dagli anni ’80; nelle aree alpine l’aumento delle temperature registrato è stato di 0,2-0,5 °C per decennio.

Questo accelerato aumento delle temperature ha anche influenzato fortemente le nevicate e dagli anni ‘70 nelle Alpi settentrionali la durata e l’altezza del manto nevoso sono notevolmente diminuiti, tant’è che tra i 1.100 ei 2.500 metri di quota la durata della neve al suolo si è ridotta negli ultimi decenni di cinque settimane, e si prevede che nel 2050 il manto nevoso nei fondivalle e sui versanti meridionali dovrebbe ridursi di 4 settimane a 2500 metri.

Quindi non dobbiamo stupirci se nelle Alpi occidentali Ixodes ricinus si ritrova ormai fino a quote che sfiorano i 2000 metri di quota, un dato impensabile 20 anni or sono. Non solo le Alpi sono però state colonizzate a quote sempre maggiori, infatti anche sui Monti Tatra (al confine tra Slovacchia e la Polonia) I. ricinus si rinveniva negli anni ’80 a quote inferiori ai 700 metri, mentre una ricerca condotta all’inizio degli anni 2000 ha permesso, nelle stesse aree, di trovare questa zecca fino a 1250 metri.

Portare il cane a fare una passeggiata in inverno può quindi, soprattutto nei versanti meglio esposti ed assolati, rappresentare un rischio per le zecche anche nei mesi invernali.

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Ormai il rischio di incontrare una zecca è presente anche in inverno, difficilmente in condizioni come questa con il terreno ricoperto di neve, ma sappiamo che questo accade sempre più raramente e per meno tempo.
© E. Ferroglio.

Tick Borne Pathogens in aumento

L’aumento del numero di zecche è stato ovviamente accompagnato anche da un aumento dei patogeni da esse trasmessi (TBP), tant’è che in alcune realtà si arriva ad avere fino al 40% delle zecche campionate, sia a livello ambientale sia su animali o pazienti umani, positivo per almeno un TBP.

Oltretutto, come già detto, in molte aree del Paese I. ricinus ha ormai sostituito Rhiphicephalus sanguineus come zecca di più frequente riscontro nel cane e nel gatto. Una recente indagine ha mostrato, quale conseguenza di questa tendenza, come ormai molti agenti patogeni che si rinvengono su zecche recuperate da cani non siano tipici del cane, tanto che oltre il 75% delle specie di Babesia spp. rinvenute è rappresentato da specie tipiche di altri ospiti selvatici.

In alcune aree del Nord del Paese si arriva ormai ad avere fino al 30% delle zecche infestate da Babesia venatorum, sia che queste vengano raccolte a livello ambientale sia che siano rinvenute su cani o umani al pronto soccorso. Il fatto che questa specie di Babesia sia zoonotica pone una serie di problemi, peraltro evidenziati anche in molti altri contesti; pensiamo agli USA, dove i casi di babesiosi nell’uomo sono aumentati in misura notevole e in meno di un lustro la babesiosi umana è passata da malattia semisconosciuta a problema emergente con oltre 2.000 casi all’anno.

Se e quali conseguenze cliniche il passaggio di patogeni dai selvatici agli animali da affezione possa avere non è ancora dato sapere, ma sicuramente il salto di specie da un selvatico ai pet o all’uomo (vedi borreliosi) può rappresentare un rischio non indifferente per molti TBP.

Cambiamenti nell’epidemiologia delle infestazioni da zecche

Analizzando i risultati emersi dai diversi studi condotti negli ultimi anni emerge quindi la conferma di sostanziali cambiamenti nell’epidemiologia delle infestazioni da zecche, che vedono questi parassiti ormai presenti, sia nei cani che nei gatti, anche nei mesi invernali, con una predominanza (almeno nelle aree indagate) di Ixodes spp soprattutto, e con una chiara indicazione del fatto che frequentare/vivere in giardini e/o spazi all’aperto rappresenta un importante fattore di rischio.

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Andamento mensile delle zecche rinvenute su cani (a sinistra) e gatti (a destra) in ambulatori situati in aree alpine e montane della Penisola. Anche se le densità maggiori si hanno in primavera, si può tuttavia notare come anche nei mesi invernali cani e gatti siano comunque a rischio per l’infestazione e come siano soprattutto le zecche adulte, quelle di dimensioni maggiori, a venire notate. NA= not available (non disponibile).
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Percentuale di specie (o genere se l’identificazione a livello di specie non è stata possibile) e stadio vitale delle zecche rilevate durante lo studio nelle due specie ospite. Come si può notare le zecche rinvenute su cani (a sinistra) e gatti (a destra) in ambulatori situati in aree alpine e montane della penisola appartengono soprattutto a due generi e Ixodes è il più diffuso. Questo evidenzia il ruolo che le specie a vita libera giocano nell’epidemiologia delle zecche e i rischi di possibili spill-over di patogeni dai selvatici ai domestici. NA= not available (non disponibile).

Un dato interessante emerso è che i gatti non sono “immuni” dal rischio zecche, come a volte qualcuno è tentato di pensare, ma anzi anche in questa specie il problema è molto concreto. Un’ultima considerazione va poi fatta in merito al fatto che, anche in inverno, per la maggior parte le zecche che si rinvengono su cani e gatti sono esemplari adulti.

Questo ha due profonde ripercussioni pratiche, perché sappiamo che le zecche adulte hanno fatto due pasti di sangue (da larva a ninfa e da ninfa ad adulto) e quindi sono quelle che presentano un maggiore rischio di ospitare agenti patogeni, inoltre sono anche lo stadio che spende più tempo sull’ospite (6-10 giorni) e che quindi è anche quello maggiormente in grado di trasmettere eventuali patogeni.

Peraltro, la maggior parte delle zecche che si rinvengono su cani e gatti (succede anche per l’uomo) sono adulte probabilmente solo perché questo è lo stadio con dimensioni maggiori e quindi più facile da vedere.

Questo ci deve sempre ricordare che non trovare zecche non necessariamente vuol dire che queste non ci siano, soprattutto nei soggetti con pelo folto.

Adottare idonee contromisure…

Occorre quindi prendere atto di quanto sta avvenendo e adottare le contromisure idonee a proteggere i nostri cani e gatti, sia implementando protocolli adeguati estendendoli a tutto l’anno, ma anche, dove necessario, adottando un’adeguata tipologia di trattamenti.

Ad esempio, nei cani a rischio, usare farmaci che abbiano un’elevata efficienza nel “colpire” anche le zecche presenti negli spazi interdigitali, come è il caso dei sistemici.

È necessario poi ricordare che, se le zecche sono ormai un problema annuale, anche i patogeni trasmessi da zecche vanno inclusi tra le diagnosi differenziali non più solo in alcuni periodi dell’anno.

… e considerare le ripercussioni sulle comunità biotiche

Quanto detto per i vettori vale ovviamente anche per molti altri patogeni e/o ospiti intermedi. Infatti queste variazioni hanno ripercussioni notevoli sulle comunità biotiche, in particolare l’aumento delle temperature, soprattutto invernali, e la minore presenza al suolo della neve comportano variazioni nella stagionalità di molte specie soprattutto nelle are montane.

Queste ovviamente sono più evidenti negli eterotermi, gasteropodi, insetti, anfibi e rettili, che anticipano il loro ciclo stagionale in media di sei giorni ogni dieci anni, mentre le specie omeoterme presentano un anticipo minore, di un giorno per decennio.

Sappiamo che molte di queste specie possono agire da ospiti intermedi per alcuni parassiti, tra cui ad esempio Aelurostrongylus abstrusus e Angiostrongylus vasorum, che sono considerati parassiti emergenti per i quali molluschi e vertebrati agiscono da ospiti intermedi o paratenici. Il riscaldamento porta a un’estensione della stagionalità di molte di queste specie, ma anche in alcuni casi a un aumento della loro abbondanza perché, come le larve dei flebotomi, inverni meno freddi possono portare a una minore mortalità di molluschi e/o vertebrati.

Quindi, molti parassiti con ciclo indiretto potrebbero venire favoriti dalla capacità degli ospiti intermedi di sfuggire a queste marcate variazioni di temperatura, o dall’aumento dell’areale e dell’abbondanza dei loro ospiti intermedi.

Ad esempio, nel caso in cui gli ospiti intermedi siano molluschi gasteropodi (situazione comune in molti elminti degli animali domestici e selvatici), questi riescono grazie all’estivazione a sfuggire ai periodi di maggiore calura, mentre l’allungamento della stagione favorevole al ciclo ne favorisce un aumento dell’abbondanza e del loro areale di distribuzione, tant’è che nelle Alpi si è visto che i gasteropodi estendono la quota della loro presenza di quasi 20 metri ogni decade.

Anche l’abbondanza di micromammiferi potrebbe risentire di queste alterazioni sia in modo diretto che indiretto, e anche questi sono potenziali ospiti intermedi/paratenici di alcuni parassiti, e soprattutto ospiti di mantenimento per alcuni vettori.

Mantenere viva l’attenzione

Come già anticipato, non si tratta solo di temperatura, ma anche di diversa ridistribuzione delle precipitazioni che giocano un ruolo molto importante sia sulla sopravvivenza, abbondanza e stagionalità di molti ospiti intermedi, sia sulla sopravvivenza delle forme parassitarie a vita libera.

Il quadro si presenta quindi estremamente complesso, e spesso i modelli sviluppati per predire gli effetti dei cambiamenti climatici sui cicli dei parassiti si dimostrano inadeguati per la presenza di variabili che sfuggono alla comprensione e agli effetti di parametri ambientali che non sono conosciuti e/o misurabili.

Questo rinforza la necessità di mantenere alto il livello di attenzione e non rimanere “prigionieri” delle vecchie abitudini; per non subire, o quantomeno per mitigare, le ripercussioni dei cambiamenti in atto occorre quindi monitorare la situazione per individuare i nuovi scenari e i nuovi problemi sanitari.

La natura non è mai immobile, dobbiamo anche noi imparare a mantenere viva l’attenzione per poter adottare le contromisure migliori. Ne va della salute dei nostri animali e della nostra professionalità.

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