Gli sforzi per arrivare all’inclusività totale passano anche per strumenti come le linee guida UNI sul linguaggio neutrale.

Viviamo in una società civile o presunta tale, dove bisogna combattere quotidianamente per risolvere molti problemi, talvolta nuovi, talvolta vecchi e bacucchi. Qualunque problema ha almeno una soluzione, ma non tutte sono facili da adottare e, in questi casi, i problemi nuovi col tempo diventano prima vecchi e poi bacucchi. Conviviamo tutti quanti con il problema sociale dell’inclusività, cioè con il desiderio/necessità di creare rapporti umani, familiari e lavorativi, che prescindano dal sesso delle persone, dalle loro caratteristiche fisiche, dalle loro anomalie magari genetiche, dalle loro propensioni sessuali e via elencando.

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L’inclusività tra il dire e il fare

Già soltanto da un grossolano inquadramento del problema come sopra esposto, tremano le vene ai polsi di fronte alle dimensioni della questione e alla portata difficilmente calcolabile in termini di miglioramento della vita di tutti, il giorno in cui questi obiettivi venissero realmente raggiunti. Strada ne è stata fatta e non si può dire che risultati non ne siano stati raggiunti, ma la barca è ancora in alto mare e le previsioni meteo non sembrano essere delle migliori, perché a parole l’argomento è perfettamente condivisibile da tutti, ma poi in pratica le cose stanno diversamente.

Molte aree dell’umana convivenza sono convinte che dare maggiore visibilità a determinati gruppi sociali significhi toglierla a loro, che pagare equamente una donna significhi non pagare più equamente un uomo o magari che abbattere le barriere architettoniche, di fronte a cui troppo spesso si bloccano i disabili, rappresenti un dispendio di denaro, che andrebbe usato per altri scopi.

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Il problema dell’inclusione generalizzata non è più un problema nuovo, non è più un problema vecchio e nemmeno bacucco, perché sono talmente tanti gli anni trascorsi da quando è iniziata la definizione formale di questo problema e delle possibili soluzioni, che si fatica a risalire al giorno zero.

Le linee guida UNI sul linguaggio neutrale

Dato che gli sforzi e la buona volontà sono importanti, talvolta si assiste a proposte di peso e talvolta si prende atto di proposte apparentemente marginali, a cui però va riconosciuto il desiderio di “provarle tutte”, per avere magari un rimorso in più ma un rimpianto in meno per non averci provato. L’UNI (Ente Italiano di Unificazione) è l’organizzazione che mette in commercio le norme internazionali di derivazione ISO o di altra natura, che vengono usate per regolamentare e talvolta certificare innumerevoli aspetti del nostro mondo.

L’UNI produce anche autonomamente linee guida, norme specifiche su singoli problematiche e prassi di riferimento, che possono essere impiegate sia per allineare la propria realtà con il pensiero comune sia per mettere sé stessi o la propria impresa in condizioni di operare in maniera più conforme o partecipare a bandi di gara o assegnazione di fondi. L’ultima nata in casa UNI è la “Linea guida per la parità di genere nel linguaggio”, documento di libero accesso pubblico e quindi scaricabile gratuitamente, in cui si vorrebbero porre le basi fondamentali del cosiddetto “linguaggio neutrale”.

La domanda che potrebbe sorgere spontanea è che pare difficile definire quando un tipo di linguaggio è neutrale e quando non lo è, e la pubblicazione parte proprio da questo aspetto, cominciando con il definire gli aspetti assolutamente comuni del linguaggio di tutti i giorni, capaci di renderlo non neutrale e quindi ostativo alla diffusione della parità di genere.

Infatti, l’UNI illustra le finalità della pubblicazione specificando che si vorrebbe promuovere “un linguaggio, dunque, che non esclude che non limita ma che anzi pone ogni persona al centro senza discriminare per via del genere, etnia o abilismo, contribuendo a rompere quelli che sono i pregiudizi e gli stereotipi che le parole hanno costruito nel tempo”.

Alcuni esempi presi dal testo ci suggeriscono che diciture come “i professionisti” o “le professioniste” non vanno più bene e andrebbero sostituite nel parlare comune con forme come “le figure professionali”. I binomi mediatici verbali, ma anche grafici, a cui siamo stati per anni abituati non vanno più bene e quindi andrebbero sostituiti con nuove associazioni mentali, del tipo donna = manager, uomo = lavori di casa, peraltro già frequentemente adottati dal marketing pubblicitario di numerosi prodotti.

Obsoleto associare il colore azzurro ai maschi e il rosa alle femmine fin da piccoli, laddove andrebbe favorita una sostituzione diffusa delle due tinte classiche con una gamma di colori più vasta e articolata, ma soprattutto non automaticamente associabile al sesso del piccolo o della piccola.

Utilizzare articoli davanti ai cognomi sarebbe da evitare, non dicendo più “la Meloni” o “la Boldrini”, ma utilizzando nome e cognome, per esempio Giorgia Meloni, così come inserire al primo posto il riferimento di genere della categoria numericamente meno rappresentata, come “le operaie e gli operai” oppure come “gli infermieri e le infermiere”. Forme stereotipate e sessiste, come “un ministro donna” o “un ingegnere donna” secondo UNI andrebbero sempre evitate e sostituite con forme come “la ministra” e “l’ingegnera”, probabilmente trovandosi all’atto pratico a usare vocaboli di dubbia correttezza grammaticale o lessicale, ma più utili al raggiungimento dello scopo.

Basta con “gli italiani, i docenti, i cittadini”, a cui bisogna sostituire “il popolo italiano, il corpo docenti, la cittadinanza” e via elencando, perché la linea guida dell’UNI (liberamente scaricabile dal sito www.uni.com) prosegue per diverse pagine con esempi specifici relativi alle forme colloquiali, a quelle impersonali, ai contesti lavorativi e professionali, lasciando ampi spazi all’inventiva personale finalizzata a trovare anche ulteriori forme discorsive allineate con gli obiettivi di inclusività.

A che punto siamo

Fermo restando che la medesima UNI ha in catalogo anche delle apposite prassi di riferimento, come la PdR 125:2022 sulla misurazione della parità di genere, che possono addirittura essere usate per ottenere certificazioni da Enti terzi e quindi accedere ai finanziamenti pubblici, questo documento sulla scrittura neutra e inclusiva parrebbe suggerire due ordini di considerazioni.

La prima è che l’Italia, ma anche il resto d’Europa e non solo, si stanno muovendo in questa direzione e l’inclusività di tutte le varie categorie sociali rappresenta un obiettivo comunemente ritenuto importante, anche se poi, come quasi sempre accade, ognuno si muove alla propria velocità e quindi i traguardi raggiunti in uno Stato non necessariamente sono stati raggiunti anche da altri e viceversa.

Il più grande ostacolo universalmente riconosciuto verso qualunque tipo di innovazione è sempre la tendenza del singolo individuo a non cambiare mai nulla, a lasciare le cose come stanno se non riceve un danno preciso e a lasciare che gli altri aprano la strada, mentre lui continua la sua vita di sempre. Sono positive quindi tutte le iniziative volte a smuovere la massa partendo dal tentativo di smuovere i singoli, perché sono probabilmente le uniche con una possibilità di successo, per quanto piccola.

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La seconda considerazione è che il contesto generale in cui l’Italia è immersa non appare favorevole verso queste iniziative, se non a livello di pura facciata, dove, come troppo spesso accade, si predilige il sembrare invece che l’essere, a tutti i livelli, umano, politico, commerciale, aziendale, etico.

L’evidenza oggettiva che la tragedia immensa dei femminicidi è passata da evento sporadico a dramma quasi quotidiano, che la cassa integrazione, i licenziamenti e le assunzioni non sono mai stati e non sono tuttora né equi e nemmeno solidali, che le barriere architettoniche continuano a impedire, dopo anni, alle persone con disabilità di accedere a servizi e strutture anche pubbliche, getta un’ombra molto lunga su un traguardo di inclusività, che sarà ancora per molto tempo una lunga marcia.

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